La prima e più famosa quattro cilindri italiana da GP, vincitrice di sei mondiali 500 e 39 Gran Premi dal ’48 al ’66 A parte l’Aprilia RSV4, tutte le quattro cilindri sul mercato sotto i 1.000 cm3 sono dei quattro in linea. È così da quasi 45 anni, ovvero da quando Honda ha creato l’era della UJM (Universal Japanese Motorcycle) con la sua CB750 del 1968 anche se, a ben guardare, lo schema tecnico è stato inventato da una Casa italiana quando creò la Rondine recuperando un progetto nato come OPRA prima e poi come CNA fin dal 1927. La Gilera 4C Rondine vinse con Serafini il titolo europeo della 500 nel 1939 battendo le potentissime BMW Kompressor. Fu l’arrivo di Duke a cambiare tutto. Geoff aveva sconfitto le più potenti e veloci Gilera su una Norton Manx dotata del rivoluzionario telaio Featherbed, e in collaborazione di Piero Taruffi il britannico sviluppò con grande efficacia la ciclistica della Quattro, facendole vincere quattro titoli e diventando l’idolo del Commendator Giuseppe Gilera il cui figlio, Ferruccio, passò a gestire il reparto corse quando Taruffi passò alle auto con Lancia prima di morire tragicamente a soli 26 anni. Nel 1957 toccò a Liberati riportare al vertice la Gilera, sconfitta l’anno prima dalla MV in un campionato molto controverso, che in quella stagione entrò nella storia vincendo la cinquantesima edizione del TT e infrangendo per la prima volta la magica barriera delle cento miglia orarie di media con Bob McIntyre. Sarebbe stata l’unica vittoria in 500 della carriera del britannico, che ebbe molto più successo con le 350. A fine stagione però Gilera si ritirò dalle competizioni assieme a Guzzi e Mondial, e si dovette attendere fino al 1963 perché Geoff Duke fondasse la sua “Scuderia Duke”, inizialmente per far correre McIntyre, nel frattempo passato alla Honda, e convincesse il Commendatore a recuperare le “Quattro” per farle correre nel Mondiale con John Hartle e Derek Minter. Una minaccia Le moto non erano state sviluppate ma anche MV Agusta, che correva praticamente da sola, non aveva lavorato granché, almeno fino a quando il Conte Agusta non capì che minaccia potessero rappresentare le Gilera e riprese ad investire, rendendo impossibile la sfida della Scuderia Duke, completamente privata e non troppo ricca. Inizialmente Hartle e Minter dominarono la stagione ’63, quasi ridicolizzando il campione in carica Mike Hailwood: un grave errore strategico, perché MV riprese prontamente lo sviluppo e, da allora, “Mike the Bike” non subì più nessuna sconfitta diretta. Per peggiorare ulteriormente la situazione Minter si infortunò gravemente a Brands Hatch e Duke chiamò a sostituirlo Phil Read. Ci volle qualche gara perché Phil, al debutto su una quattro cilindri, prendesse il ritmo. La vendetta Gilera arrivò in Olanda con una doppietta Hartle/Read (ma Hailwood si era ritirato), per poi subire una lunga seria di sconfitte contro le MV del campione del mondo. Alla fine Hartle venne battuto in classifica generale, con un disastroso GP di Monza che rappresentò l’ultima gara mondiale della Gilera e della Scuderia Duke. Le moto tornarono in Italia e il team venne smantellato. Ma la storia Gilera nei GP della 500 non finì: Caldarella vinse un Gran Premio a Buenos Aires battendo il record stabilito da Hailwood solo un mese prima. Altre tre vittorie in gare nazionali convinsero la Casa madre a portarlo in Europa affidandogli una moto per tutta la stagione. Dopo una bella prova a Daytona nel GP degli USA, Caldarella vinse la Coppa d’Oro a Imola e tenne il passo delle MV per tutta la stagione. Nel 1966 la Casa di Arcore tornò per un’ultima volta – esattamente dieci anni dopo la riprogettazione del 1956 – con Remo Venturi disputando diverse gare nazionali e finendo secondo nel Campionato Italiano dietro a Giacomo Agostini con una bella prova a Vallelunga. Fu l’ultima gara di una Gilera ufficiale, il cui palmarés conta 39 vittorie nei GP e cinque titoli iridati della 500. Due anni dopo Honda presentò la CB750 Four, e il contributo Gilera al mondo del motociclismo entrò per sempre negli annali. La tecnica La “mia” 500, con il motore numero 4 e il telaio 504, è dotata della carenatura Jakeman bianca “a delfino” dell’era post-1957, quando le sovrastrutture integrali vennero messe al bando dalla Federazione. La moto è quindi nelle stesse identiche condizioni in cui è stata portata in gara al rientro di Gilera nelle competizioni con la Scuderia Duke esattamente cinquant’anni fa, nel 1963, quando a dispetto di una situazione tecnica esattamente identica a quella lasciata da McIntyre e Liberati nel 1957, si rivelò immediatamente competitiva contro le MV Agusta che, nel frattempo, avevano goduto di cinque anni di sviluppo in gara. John Surtees e poi Gary Hocking vi avevano infatti corso – i maligni dicono passeggiato – conquistando senza fatica una lunga serie di titoli mondiali contro avversari privati, come Agostini poi fece un decennio dopo. Acerrime rivali I confronti fra la Gilera e la sua più acerrima rivale, la quattro cilindri MV Agusta di prima generazione che ha corso fino al 1966, è ancora più valido visto che sono state progettate dallo stesso tecnico, il romano Pietro Remor. Quando nel 1950 Masetti vinse il primo dei sei titoli iridati Gilera, in sella alla quattro cilindri che aveva progettato tre anni prima, Remor era già passato al team Agusta, per il quale aveva disegnato un quadricilindrico quasi identico. Ma la “copia” MV non era all’altezza dell’originale Gilera, soprattutto dopo l’arrivo di Geoff Duke in Gilera nel 1953: l’importanza di Duke nello sviluppo del telaio Norton Featherbed, dalla stabilità leggendaria, gli consentì di aiutare Gilera nel raggiungere un risultato molto simile. Il risultato è la stessa posizione di guida, molto allungata, della Norton Manx nonostante l’interasse contenuto in soli 1.375 mm (valore sorprendente per una quattro cilindri) dell’italiana. La somiglianza al Norton Featherbed del telaio a doppia culla è la testimonianza dell’influenza di Duke. La forcella, prodotta da Gilera stessa, ha steli di 34 mm Ø e una strana coppia di traversini verticali fra le piastre di sterzo per aumentare la rigidità. Al posteriore, il forcellone relativamente esile fa lavorare i due ammortizzatori Girling che nel 1963 costituivano l’equipaggiamento standard delle 500 da GP. Erano fondamentali per consentire alla Gilera di scaricare a terra i 67 CV a 10.600 giri (rilevati dal banco prova Gilera dell’epoca) erogati dal 499 cm3 a corta lunga con alesaggio e corsa di 52 per 58,8 mm. La versione di 350 cm3, per onor di cronaca, erogava 49 CV dichiarati, più della maggior parte delle Manx 500 dell’epoca. I vantaggi di configurazioni superquadre, capaci di regimi ben superiori e quindi di maggiori potenze massime, divennero evidenti solo più tardi. Con le sue due valvole per cilindro con angolo compreso di ben 100° e pistoni a cupola pronunciatissima, il propulsore Gilera è un vero figlio degli anni ’50. Ma lo schema del motore di Pietro Remor contò diverse imitazioni in Italia, Giappone ma anche Francia, sotto forma del progetto Nougier a quattro cilindri, successivamente abortito, che Norton arrivò vicinissima ad adottare. Lo schema è comune a diverse realizzazioni: un quadricilindrico in linea con comando distribuzione centrale ad ingranaggi con quattro pignoni su cuscinetti a sfere e doppio albero a camme in testa. I cilindri in lega leggera, fusi singolarmente e con camicie in acciaio, sono inclinati in avanti di 30°. Coppa in magnesio La coppa, lunga ed alettata, è in magnesio e fusa in pezzo unico con la parte bassa del carter (il motore si apre orizzontalmente, altra caratteristica distintiva) che comprende il carter del cambio, accessibile attraverso un coperchio dedicato sulla destra. La parte superiore del carter è in alluminio, e accoglie cilindri e testata (con sedi valvole in acciaio) grazie a 12, lunghissimi, prigionieri. Le valvole (34 mm all’aspirazione e 33 mm allo scarico), guidate ciascuna da tre molle elicoidali, sono azionate direttamente dalle camme a tazza dei due alberi. Le camere di scoppio sono perfettamente emisferiche, e i pistoni forgiati Borgo con corona a cuneo e profondi svasi per le valvole determinano un rapporto di compressione di 11:1, piuttosto elevato all’epoca per un motore alimentato a benzina e non a metanolo. Sono stati provati carburatori di diverse misure sulla base delle caratteristiche del circuito – su questo esemplare abbiamo trovato dei Dell’Orto di 28 mm Ø posizionati su due banchi in gomma e con vaschetta condivisa ogni due unità. Gilera ha impiegato tanto alberi motore monolitici che compositi – in entrambi i casi con quattro cuscinetti a rulli, volano e un cuscinetto a sfere a ciascuna estremità. L’albero motore comanda anche la pompa dell’olio per spostare il lubrificante dalla coppa integrale da cinque litri; la vita di un albero era considerata di 100 ore, dopodiché venivano sostituiti anche se l’usura appariva minima. Per ridurre la larghezza del motore il secondo volano da sinistra era lavorato per fare da ingranaggio della primaria, comandando il tamburo della frizione in bagno d’olio montato rigidamente all’estremità di uno degli alberini del cambio (a sette rapporti) e l’alternatore Lucas che gestiva l’accensione delle quattro candele di 10 mm. Gilera ha guardato lontano in fase di progettazione: il cambio era raggiungibile anche a motore montato semplicemente smontando il coperchio frizione sulla sinistra del motore. Il modernissimo cambio estraibile si poteva smontare senza sforzo, sostituendo i rapporti interni con una delle otto alternative disponibili per ciascun rapporto. In test È davvero calzante che la mia prova dell’ultima evoluzione della Gilera – ancora considerabile ufficiale, visto che è a tuttora di proprietà del Gruppo Piaggio che possiede la Casa di Arcore – avvenga a Monza, sulla pista che ne ha visto la nascita. Assistito dai tecnici Nadir Bortolucci e Gianni Villa, che l’hanno restaurata e in compagnia di Derek Minter, ex pilota della Scuderia Duke che è stato fra gli ultimi a portare in gara la quattro cilindri. Il contributo di Duke è evidente nel momento in cui si sale in sella: la posizione è identica a quella della Norton Manx su cui Geoff ha sconfitto proprio le quattro cilindri italiane nel 1951. La Gilera si avvia senza sforzo con un paio di passi, facendo subito sentire la sua voce, colonna sonora che non abbandona mai la percezione del pilota non tanto per il suo volume quanto per la sua musicalità – sembra di avere costantemente alle spalle un tuono, con la sua tonalità profonda e bassa sparata fuori dai quattro megafoni, che contrasta nettamente con le urla delle “quattro” MV, Benelli e Honda. Il rumore trasmette la personalità della moto, che con i suoi 10.600 giri era meno spremuta delle successive rivali. La Gilera è più vecchia e si sente: i giri salgono con maggior calma, senza quella prontezza di risposta di Benelli o MV. In pista ciò si traduce in un senso di solidità ed affidabilità, ma anche in una coppia e un freno motore di tutto rispetto per un quadricilindrico. Se la posizione di guida ricorda la Norton, il motore rappresenta quello che sarebbe stato il propulsore della Manx se avesse avuto tre cilindri in più. Tre ore di gara al TT ad oltre 160 di media? Nessun problema. Ecco il messaggio trasmesso dalla Gilera quando la si guida. Questo paradosso mi ha lasciato un po’ perplesso perché mi aspettavo un motore più nervoso, prima di ricordarmi che si tratta di un motore a corsa lunga, progettato in un’epoca in cui velocità medie del pistone pari a metà di quelle a cui siamo abituati ora erano considerate pericolose. Il feeling è quindi molto diverso, e anche il limite di giri – conservativo rispetto agli oltre 14.000 a cui ci hanno abituato le 500 di dieci anni dopo – ha un suo senso. L’erogazione della Gilera è molto sfruttabile, pur con un buco fra i 5.000 e i 6.200 giri che richiede un certo uso della frizione. Dopo la potenza arriva con grande regolarità, con una buona risposta all’acceleratore e una curva di coppia piattissima. Non è certo una sorpresa che il cambio all’epoca delle vittorie contasse solo quattro rapporti, anche se la versione che ho guidato era dotata del sette marce con cui Minter aveva corso il TT nel ’66 e che avrebbe dovuto servire per una nuova generazione di motori ben più nervosi. Che però non nacquero mai, uccisi in partenza dalla Honda RC181 e MV Agusta a tre cilindri. Volare verso la Parabolica, dove si scalano tre marce per poi infilarsi in una delle curve più impegnative del mondo, resta una grande emozione e cosa non semplice, perché data la natura del propulsore bisogna scalare con calma se non si vuole perturbare l’assetto. Non ho riscontrato il sottosterzo citato da Minter, probabilmente perché percorrevo traiettorie più spigolose di lui; grazie ad un interasse molto raccolto, la Gilera è relativamente agile nelle curve lente ma impegnativa sul veloce, anche per l’assenza di un ammortizzatore di sterzo. Bastava la minima sollecitazione in curva per innescare un ondeggiamento del manubrio, situazione inizialmente terrificante ma che, una volta fattaci l’abitudine, non si rivelava mai pericolosa. Troppo rigida La principale colpevole era probabilmente la sospensione anteriore troppo rigida e poco scorrevole: non credevo che MacIntyre avesse potuto vincere il TT con la forcella in questo stato. Minter mi ha confidato come fosse un problema comune sulla Gilera. Geoff Duke la voleva così, e non assecondò mai i suoi piloti che chiedevano a gran voce una forcella moderna che già negli anni ’60 offriva molto più feeling. Il punto era che la moto era nata per essere usata con la carenatura a siluro, il che significa che la sua assenza spostava tutti i pesi verso il retrotreno, determinando una distribuzione ben lontana da quella ideale. Il doppio tamburo anteriore di 250 mm Ø era adeguato alle esigenze dell’epoca, ma rispetto allo standard dei Fontana o Ceriani di fine anni ’60, che ho usato per anni nelle gare d’epoca, richiedono un grande sforzo alla leva e perdono potenza dopo diverse staccate nonostante la Gilera, con i suoi 149 kg, è leggerissima per essere una quattro cilindri degli anni 50. Quello che proprio non ho digerito sono le leve sottilissime per freno e frizione, tipicamente latine, che arrivavano a tagliare le dita quando si doveva frenare forte. Gli anni ’50 sono state un’epoca d’oro per i Gran Premi, con almeno sei Costruttori impegnati ogni anno a contendersi il titolo con soluzioni tecniche diverse e sempre più sofisticate. E Gilera è stata praticamente imbattibile, un po’ come successivamente fece Honda con la sua NSR500. La Gilera Quattro è stata la vera regina dell’epoca d’oro dei GP: i giapponesi hanno scelto un ottimo schema da copiare!