Il frazionamento del motore: cos'è (spiegato semplice)

Il frazionamento del motore: cos'è (spiegato semplice)

Gli esempi dei pluricilindrici figli di idee innovative che hanno scritto la storia

Massimo Clarke

24.06.2024 14:21

Le MotoGP devono fare i conti con un regolamento che, oltre a porre un limite all’alesaggio, e quindi a stabilire anche la corsa, indica il massimo numero dei cilindri. Devono essere quattro, disposti non importa come. Dunque, se il massimo alesaggio è 81 mm, per arrivare alla cilindrata piena (o meglio, a 999 cc) la corsa deve essere 48,4 mm.

Senza tale limite al frazionamento, magari, qualche costruttore avrebbe pensato a un sei cilindri, naturalmente con un’architettura a V per contenere l’ingombro trasversale. In questo modo sarebbe stato possibile raggiungere una potenza più elevata di quella degli attuali quadricilindrici.

Del resto la Honda non ha corso dal 2002 al 2006 con un V5?
E già negli anni Cinquanta l’Ingegner Carcano aveva pensato a un frazionamento elevato (ben otto cilindri nel suo caso), abbinandolo a un’architettura a V, per ottenere prestazioni superiori a quelle della concorrenza a quattro cilindri.
L’incremento di potenza ottenibile con un sei cilindri rispetto a un quadricilindrico della stessa cilindrata, a parità di rapporto corsa/alesaggio, di velocità media del pistone e di pressione media effettiva è del 14% circa.

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La storia dei modelli a sei cilindri

Tale miglioramento prestazionale si ottiene grazie alla maggiore superficie dei pistoni e all’incremento del regime di rotazione. Nel 1957-58 la MV Agusta realizzò una 500 a sei cilindri in linea rimasta però allo stadio di prototipo.

A scendere in gara con una moto dotata di tale frazionamento, e con risultati eccellenti (due Mondiali nella classe 250 e uno nella 350), fu la Honda negli anni Sessanta. La sua RC 165 bialbero a 24 valvole, che esordì a Monza nel 1964, aveva i cilindri in linea e il raffreddamento ad aria. L’alesaggio di 39 mm era abbinato a una corsa di 34,5 mm e la potenza era dell’ordine di 55 cavalli a 17.000 giri/min. L’angolo tra le valvole, che avevano un diametro di 16 mm all’aspirazione e di 14 mm allo scarico, era di 75°. Ciascun pistone, a mantello intero e dotato di due segmenti, pesava 43,5 grammi e veniva vincolato alla biella in acciaio da cementazione da uno spinotto del diametro di soli 9 mm.

Nel 1969 la MV realizzò una 350 a sei cilindri che però non gareggiò a causa del nuovo regolamento, che limitava il frazionamento.
L’architettura in linea, che prevede un albero a gomiti su sette supporti di banco e scoppi equidistanti, consente una perfetta equilibratura.

La larghezza del motore è però rilevante. Questa strada è stata seguita da alcuni importanti motori di serie, a cominciare dalla Benelli con la sua 750 presentata alla fine del 1972 ed entrata in produzione un paio d’anni più tardi. In seguito da essa è stata ricavata una versione di 900 cc. Le vendite sono state modeste in entrambi i casi.

Assai meglio è andata alla Honda con la sua CBX di 1050 cc presentata alla fine del 1977. Questa moto aveva la distribuzione bialbero comandata da due catene e quattro valvole per cilindro inclinate tra loro di 63°. La potenza del motore, che aveva un alesaggio di 64,5 mm e una corsa di 53,4 mm ed era largo 595 mm, era di 105 CV a 9000 giri/min.

La Kawasaki Z1300 apparsa nel 1979 era raffreddata ad acqua e aveva le canne riportate in umido. Le due valvole di ogni cilindro avevano diametri di 34,5 mm all’aspirazione e di 29,4 mm allo scarico ed erano inclinate tra loro di 66°. Le misure caratteristiche erano 62 x 71 mm e la potenza veniva indicata in 120 CV a 8000 giri/min.

Il motore bialbero a 24 valvole della BMW K 1600 rappresenta al meglio la moderna tecnica quattrotempistica. Largo soltanto 560 mm, ha un alesaggio di 72 mm e una corsa di 67,5 mm ed eroga 160 CV a 7500 giri/min.

Cosa comporta una struttura a V con un frazionamento su sei cilindri

Se l’angolo tra le due bancate è di 60°, le fasi utili (cioè gli “scoppi”) sono distanziate uniformemente, susseguendosi ogni 120° di rotazione dell’albero a gomiti, che in questo caso è dotato di sei manovelle. Le forze sono equilibrate ma non le coppie.
Se invece l’angolo è di 90°, l’albero ha tre manovelle (e quindi quattro perni di banco)e le fasi utili si susseguono ogni 150°… 90°… 150°… 90°… Le forze sono equilibrate ma le coppie del primo ordine sono sbilanciate.
Poco male, perché anche in questo caso si può rimediare ricorrendo a un equilibratore dinamico. Va anche detto che per avere gli scoppi equidistanti, in campo auto talvolta si impiegano tre manovelle sdoppiate (con uno sfasamento di 30°).

L’unica Casa che ha imboccato con decisione questa strada è stata la Laverda con la sua straordinaria 1000 V6 presentata alla fine del 1977. Il motore a V di 90°, di chiara scuola automobilistica, aveva un alesaggio di 65 mm e una corsa di 50 mm ed erogava 143 CV a 11.000 giri/min.
L’idea era di farne il capostipite di una famiglia di motori a V modulari, ossia anche a quattro e a due cilindri. L’angolo tra le valvole era di 20° e la lunghezza delle bielle di 100 mm. Le canne dei cilindri erano riportate, con soltanto la parte superiore, ridotta a poco più di un bordino, lambita dall’acqua. L’asse dell’albero a gomiti era disposto longitudinalmente e la trasmissione finale era ad albero. Non furono in pochi a pensare, all’epoca, che forse sarebbe stato meglio, in ottica sportiva, disporre il motore con l’asse dell’albero trasversale rispetto al telaio.

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