Grazie alla nostra innata indisciplina, si possono ammirare oggi alcuni esemplari unici, gloriosi e innovativi
Raramente una moto da competizione annovera la longevità fra le sue doti migliori: il mantenimento della competitività in un mondo come quello delle gare richiede un costante processo di sviluppo che porta alla rapida obsolescenza delle moto. La
Moto Guzzi Bicilindrica è quindi una vera mosca bianca nel panorama mondiale: la sua carriera si è dipanata lungo ben 18 stagioni, aprendosi e chiudendosi con una vittoria nel Mondiale.
Anche se a un sommario conteggio si può arrivare a circa dodici esemplari di Bicilindrica realizzati nel corso degli anni per il Team ufficiale – non ne venne mai realizzata una versione clienti – le Moto Guzzi bicilindriche a V di 120° sono rarissime oggigiorno, e fino a poco tempo fa bisognava andare davvero indietro negli anni per ricordare apparizioni dinamiche di esemplari di Bicilindrica. L’esemplare post-bellico del 1947 conservato nel museo ufficiale di Mandello del Lario purtroppo non gira mai, fatto che ha reso l’apparizione delle ultime due acquisizioni di Sammy Miller al Festival of Speed di Goodwood 2012 ancora più eclatanti ed eccitanti per i guzzisti di tutto il mondo.
L’inarrestabile nordirlandese, già pluricampione britannico ed europeo in diverse discipline fuoristradistiche che spaziano dal trial all’enduro nonché proprietario e curatore del museo che porta il suo nome (www.sammymiller.co.uk) ha infatti scoperto due esemplari di 500 GP Moto Guzzi quasi introvabili. Nascoste per diversi decenni in una collezione privata italiana, la Bicilindrica del 1951 che vedete in queste pagine e una V8 di metà anni ’50 sono state oggetto di una lunga trattativa finita con l’acquisizione da parte del Museo. «Entrambe le moto sono state assemblate tanti anni fa da un collage di parti originali e repliche fedeli, tutte però uscite da Guzzi stessa dopo il ritiro dalle competizioni a fine 1957. Allora venne ordinato di distruggere tutte le moto tranne un esemplare di ciascun modello che sarebbe finito nel museo della Casa» spiega Sammy stesso.
«Nel più tipico stile italiano le moto non vennero realmente distrutte ma semplicemente smontate. I pezzi finirono un po’ dappertutto prima di venire recuperati e rimessi insieme per creare diverse moto, tutte comunque realizzate in gran parte da pezzi originali. Dopo 18 mesi di lunghe trattative con un collezionista non distante dalla fabbrica Guzzi di Lecco siamo riusciti a portarle al Sammy Miller Museum; come tutte le nostre moto sono marcianti e pronte a girare, a farsi vedere ed ascoltare dal vivo per il piacere degli appassionati. Hanno fatto il loro rientro in società insieme, al Goodwood Festival del 2012, ma le porteremo anche ad altri eventi in cui gli organizzatori riescano ad organizzarsi per la nostra partecipazione. Sono uno splendido ricordo di quel meraviglioso periodo in cui i tecnici italiani sapevano pensare fuori dagli schemi, innovando e creando soluzioni che avrebbero poi fatto scuola nel corso degli anni».
Dopo un primo test in un vicino aeroporto militare che fa da pista prova del Miller Museum ho avuto il privilegio di ricevere l’invito ad accompagnare Sammy nel (veloce) debutto pubblico a Goodwood di fronte a 140.000 spettatori. Un onore toccatomi quasi 25 anni dopo l’ultima volta in cui avevo guidato una Moto Guzzi Bicilindrica a 120°. Erano gli anni ’80, ad una delle gloriose manifestazioni di Moto Storiche a Misano, in cui l’orgoglioso possessore Maurizio Maggi mi permise di guidare la sua Bicilindrica, recentemente rimpatriata dal Brasile dove giaceva abbandonata nella sede dell’importatore locale dal 1951 dopo aver corso nella Temporada locale con il pilota ufficiale Alano Montanari.
Lo schema tecnico del suo propulsore è abbastanza insolito: un bicilindrico a V ampia di 120°, che nel corso degli anni ha subito cambiamenti radicali per restare al passo con i tempi, passando da una distribuzione ad aste e bilancieri ad una più moderna a camme in testa. La Bicilindrica nacque dalle ceneri della quattro cilindri, pesante e poco competitiva nei confronti tanto della Gilera Rondine quanto delle Norton monocilindriche. Partendo dalla 250 mono, l’ingegner Guzzi decise di riempire il vuoto all’interno del telaio con un secondo cilindro. La sua distribuzione monoalbero aveva comando misto ingranaggi/coppie coniche, mentre la lubrificazione a carter secco imponeva un serbatoio olio separato posizionato sopra quello del carburante.
A differenza delle altre bicilindriche, le due bielle non sono montate sullo stesso perno bensì su due sfalsati al fine di eliminare le vibrazioni di secondo ordine connaturate all’angolo di 120° dando perfetta regolarità all’ordine degli scoppi come
Honda poi fece negli anni ’80 spacciando la soluzione come grande innovazione. Guzzi però l’aveva già fatto cinquant’anni prima. L’inusuale angolo della V garantiva un raffreddamento ottimale del cilindro posteriore, al prezzo di un leggero allungamento dell’interasse rispetto alla 250 – si passò da 1.360 a 1.390 mm – e a qualche problema di pulizia nell’alimentazione del carburatore posteriore, collocato troppo vicino alla ruota posteriore. Le valvole avevano lo stesso diametro della 250 (37 mm all’aspirazione e 34 allo scarico), così come identiche erano le misure caratteristiche del propulsore, perfettamente quadro (68 x 68 mm) come buona tradizione Guzzi; più compatto invece il volano esterno, vista la maggior regolarità del propulsore. Il cambio era a bilanciere, con quattro rapporti. La Bicilindrica erogava 41 CV per 160 kg, passati poi a 43 CV per 151 kg (grazie ai carter in magnesio) nel 1943.
La prima versione della Bicilindrica aveva telaio rigido con forcella Brampton e piccoli freni a tamburo all’avantreno e retrotreno montati su ruote da 21 e 20” rispettivamente davanti e dietro. Carlo Guzzi era però già convinto – contro il parere di molti – della necessità della sospensione posteriore; nacque così la Sospensione Elastica Guzzi, antesignana del sistema
Suzuki Full Floater, anche qui..., che rivoluzionò il panorama dell’epoca. Ancora più lungimirante fu l’adozione dello smorzamento ad attrito per il forcellone posteriore unito alle unità ammortizzanti posizionate sotto il perno del forcellone e comandate da due bilancieri. Ancora una volta, Guzzi era mezzo secolo avanti: il sistema, controllato via cavo, permetteva al pilota di variare il precarico nel corso della gara. Un po’ come sulla Honda RS250 del 1984…
La ciclistica venne costantemente aggiornata con nuovi telai, migliorie alla forcella Brampton e telaietto in lega leggera. Teste e camicie dei cilindri divennero anch’esse in lega, e anche il cilindro posteriore venne alettato per migliorare il raffreddamento. Infine arrivò uno splendido freno a tamburo con doppia ganascia di 280 mm Ø penalizzante per il peso, arrivato però nel frattempo a 148 kg. I benefici in frenata compensarono ampiamente l’aumento della massa: ora la Bicilindrica si fermava in spazi ragionevoli dalla sua velocità massima di oltre 190 km/h.
Nel 1948 apparve un’altra versione della Bicilindrica, dotata di telaio monotrave superiore che svolgeva un doppio ruolo di serbatoio dell’olio. Una culla in acciaio ospitava la sospensione posteriore, soluzione poi ripresa 35 anni dopo dalla Elf2 da Gran Premio; la forcella telescopica sostituì la Brampton portando con sé un doppio freno a tamburo di 220 mm Ø. Il motore subì piccoli aggiornamenti, ma miglioramenti aerodinamici resero la Bicilindrica più svelta in accelerazione e veloce.
La versione definitiva della Bicilindrica è considerata quella del 1949. Una completa riprogettazione vide un uso più massiccio delle leghe leggere portando il peso a 145 kg, grazie anche ad una culla del telaio in acciaio sostanzialmente alleggerita con sospensione posteriore a vista. Il serbatoio venne rimodellato per incorporare il cupolino; il perno di sterzo spuntava da sopra, come divenne poi tradizione Guzzi, supportando piastra e due raccolti semimanubri nonché ammortizzatore di sterzo ad attrito. Il tutto fu reso possibile dall’adozione della forcella a perno avanzato vista per la prima volta sulla Gambalunga 500 di due anni prima, con le camme del freno anteriore montate in posizione centrale, coassiale al perno ruota anteriore. I cerchi divennero di 19”.
Il motore, oggetto di tanti piccoli aggiornamenti (fra cui gli scarichi a megafono) arrivava ora ad 8.000 giri e a 45 CV con carburatori Dell’Orto di 35 mm Ø. La velocità massima, grazie soprattutto all’evoluzione aerodinamica, sfiorava i 200 all’ora. Nella sua ultima stagione da ufficiale la Bicilindrica ricevette poi un serbatoio più aerodinamico, un telaio irrobustito e un diverso percorso di alimentazione. Con valvole da 35 e 33 mm la potenza crebbe di 2 CV e la velocità a 210 km/h.
Salire in sella alla Bicilindrica per i primi giri mi ha riportato alla mente tanti ricordi, soprattutto grazie a quella che per oggi è una posizione di guida insolita ma molto comoda. Ci si trova bassi ed allungati sul manubrio piatto, trovandosi facilitati nell’assumere una posizione aerodinamica abbracciando il serbatoio da 20 litri le cui curve offrono appiglio perfetto per gomiti e ginocchia. Fa un po’ effetto non poter vedere la piastra di sterzo quando si curva; i manubri sembrano spuntare fuori dal nulla, pur offrendo un controllo perfetto sull’avantreno.
La posizione, presumibilmente sviluppata nella galleria del vento della Casa di Mandello, è perfetta per la moto: non c’è nemmeno bisogno di alzarsi troppo in curva perché lo sforzo richiesto dallo sterzo è nettamente inferiore rispetto, ad esempio, ad una Norton Manx pur restando diretto e precisissimo e allo stesso tempo stabile sul veloce. L’assenza di ammortizzatore di sterzo è preoccupante solo sulla carta, perché la Bicilindrica si è dimostrata irreprensibile anche sull’accidentato fondo della pista aeroportuale.
Al retrotreno gli ammortizzatori risultano molto efficaci per l’epoca e tutt’altro che rigidi, e solo sulle peggiori irregolarità ho notato qualche saltellamento. Sullo spettacolare asfalto di Goodwood, al contrario, l’assetto si è rivelato impeccabile, senza traccia di quel sottosterzo normalmente associato ai bicilindrici a V larga. L’interasse contenuto rende la Bicilindrica agile nei cambi di direzione, e non è necessario sporgersi per compensare lunghezza o scarsa luce a terra – meglio lo stile classico, facendo attenzione a non piallarsi il piede contro il volano esterno.
Ho corso con bicilindriche
Ducati per quasi 40 anni, ma sono rimasto comunque sbalordito dalla dolcezza del propulsore Guzzi, facile da avviarsi e pronto a far sentire attraverso i megafoni la sua voce sincopata. Il bilanciamento è perfetto, le vibrazioni completamente assenti: la Bicilindrica sarebbe stata un’ottima moto stradale. Il minimo è regolare a soli 500 giri principalmente grazie ai carburatori Bing di 28 mm Ø che Miller ha sostituito ai Dell’Orto 35 mm Ø originali, quasi impossibili da mettere a punto. I Bing, nati per una due tempi, non si sono rivelati molto più facili da sistemare ma una volta che si è riusciti hanno regalato alla Guzzi un’erogazione meravigliosa. Bisogna comunque tenere il motore sopra i 5.000 giri per spremerne il meglio, ma anche quando si sbaglia basta una sfrizionata per arrivare in un lampo alla zona rossa.
I rapporti sono molto spaziati fra loro (fra seconda e terza il motore cala di 2.300 giri) e bisogna quindi far girare il motore molto alto per non trovarsi sottocoppia nel rapporto superiore, anche se il differenziale cala a 700 giri fra terza e quarta per adattarsi meglio ai tracciati veloci. Le cambiate, a proposito, sono un po’ complicate per chi ha il piede grande: la pompa dell’olio occupa molto spazio, e infilare il piede per pestare sul cambio (sulla destra e con prima in basso) non è affatto banale. Anche scalare usando il tallone sul cambio a bilanciere fa un po’ strano, all’inizio, ma ci si fa l’abitudine; l’azione del comando è comunque un po’ lenta, per cui è necessario agire con calma, dolcezza, e non dimenticarsi mai l’uso della frizione e una bella doppietta con l’acceleratore.
Un’altra particolarità arriva quando si richiama il freno anteriore, di fatto costituito da due tamburi separati di 220 mm Ø montati assieme: sta al pilota rendere omogenea la pressione sui due comandi a leva sul manubrio – uno per ciascun tamburo, in maniera tale che in caso di pioggia il pilota potesse usarne solo uno per evitare di bloccare l’avantreno. In questa occasione erano un po’ sottotono, ma è andata meglio così vista la durezza delle gomme Avon Speedmaster che avevano vissuto assieme alla moto per qualche decennio in un museo.