Per una delle ottavo di litro pi&ugrave; rappresentative del decennio magico delle 125 italiane (dal 1985 al 1995), la Casa di Arcore non scese a compromessi. Dopo i bagliori delle KZ e KK, con l&rsquo;arrivo della MX-1 (vincitrice in SP e autore anche di un record di durata in un test organizzato da Motosprint a Nard&ograve; nel 1988) e poi della MX-R, Gilera forse perse un po&rsquo; di smalto agli occhi dei sedicenni del periodo. Le MX erano proposte s&igrave; valide, ma dal piglio troppo stradale in un periodo in cui le concorrenti iniziavano a sfornare 125 sempre pi&ugrave; sportive. Ecco allora che nel 1989, a pochi mesi di distanza (eh s&igrave;, le novit&agrave; duravano al massimo un anno, poi si restava indietro) dalla MX-R, piomb&ograve; sul mercato forse la &ldquo;pi&ugrave; sportiva tra le sportive&rdquo;.    GILERA SP 01: quasi pronto-pista  Disegnata da Marabese, la Gilera SP 01 fu un piccolo prodigio per fascino, grinta e con le corse nel DNA. Al telaio doppio trave in acciaio Twin Box dell&rsquo;ing. Ciancamerla, visto gi&agrave; sulla MX-1, abbinava un motore di 124 cc rivisto, dotato di valvola allo scarico APTS, dove tutto era estremizzato per rendere al meglio nelle gare Sport Production. L&igrave; dove una vittoria significava immagine e numeri sul mercato (quasi un piccolo Mondiale, quel campionato). La nuova SP 01 era di fatto una 125 pronto-pista, ma omologata per circolare sulle strade aperte al traffico.    L&#39;abbiamo guidata oggi  Abbiamo avuto la fortuna di provarne un esemplare -&nbsp;perfettamente restaurato dagli amici di Due Tempi bei Tempi -&nbsp;nel corso di un test in pista, sul tracciato di Cervesina e, quasi fossimo stati trasportati nel 1989, abbiamo cercato di riscoprirne le doti tecniche e dinamiche. Quello che subito &egrave; balzato alla nostra attenzione &egrave; stata indubbiamente la bella abitabilit&agrave; una volta in sella. In questo contesto si apprezzano gli ingombri generosi adatti anche a quei piloti di maggiore statura che riescono a trovare la giuste misure una volta presi in mano i semimanubri, bassi e spioventi, ritrovandosi con la strumentazione praticamente davanti gli occhi una volta acquattati dietro il generoso cupolino. La SP 01 ci ha fatto subito capire di che pasta era (ed &egrave; ancora) fatta. La guida richiesta &egrave; decisamente specialistica e si capisce immediatamente come portarla al limite, fosse un qualcosa ad appannaggio di piloti esperti. Se guidata con perizia, la SP 01 mette a disposizione tutti gli strumenti necessari per sfruttarne a fondo il notevole potenziale.  Il motore esibisce notevole grinta agli alti e, se si riesce a tenerlo nell&rsquo;arco migliore di erogazione e a trasmettere una costante trazione la ruota motrice, il comportamento in traiettoria risulta apprezzabilmente neutro; basta per&ograve; essere appena sotto coppia ed ecco che la guida ne risente e serve attenzione per compensare la tendenza a cadere all&rsquo;interno della curva. Il motore entra in coppia verso i 7.000 giri con un crescendo pepato verso quota 9.000, e una progressione esaltante fino ai 10.500 giri.    La nostra prova nel 1989  Nel 1989 InMoto ne scriveva cos&igrave;: &ldquo;L&rsquo;idea di partenza era quella di realizzare una fuoriserie sportiva, una piccola Bimota: una moto senza compromessi qualitativi; con tutta probabilit&agrave; il risultato sarebbe stato quello di avere una 125 dai costi assolutamente sproporzionati e per questo la Gilera ha mirato in direzione di una minore esasperazione della componentistica. Il risultato? La SP 01 ha fatto sua al 100% una filosofia che ha generato mezzi come la Honda RC 30 o la Yamaha FZR 750 R, per una 125 da gara abilitata a circolare sulle strade aperte al traffico&rdquo;.  Le prestazioni rilevate al periodo parlavano di 29,3 CV con velocit&agrave; di oltre 170 km/h. Una moto che per&ograve; era forse &ldquo;troppo&rdquo; per i sedicenni ammaliati dalle proposte Aprilia e Cagiva rispetto alle quali pagava lo scotto di una superata ruota di 16&rdquo; anteriore e probabilmente l&rsquo;eccessiva esasperazione. Nel 1990 arriv&ograve; l&rsquo;evoluzione SP 02 e nel 1991 la Crono, proposte che differivano per qualche particolare tecnico (forcella a steli rovesciati), estetico (tappi serbatoio di tipo aeronautico e nuovo codino per la Crono) e diversi colori. L&rsquo;epopea delle SP si chiuse con l&rsquo;arrivo della GFR, moto valida con medesimo telaio delle progenitrici ma con monobraccio posteriore. Ma al periodo, non seppe guadagnarsi molti apprezzamenti forse a causa di una non precisa identit&agrave; (a differenza della capostipite).  Oggi questa piccola Gilera &egrave; un sogno per tanti nostalgici appassionati. Trovarne una &egrave; di per s&eacute; complicato, ma ancora di pi&ugrave; messa in perfette condizioni come l&rsquo;esemplare da noi provato in pista. In questi casi le cifre richieste possono avvicinarsi ai 10.000 euro. I motivi? Dovuti principalmente alla difficolt&agrave; nel reperire pezzi originali e la necessaria attenzione per riportare ai vecchi splendori i tanti particolari per una delle ottavo di litro pi&ugrave; importanti del &ldquo;decennio d&rsquo;oro&rdquo;, peraltro di una Casa gloriosa oggi &ndash; ahinoi &ndash; scomparsa dal mercato.    LE MOTO ICONICHE CHE COMPIONO 30 ANNI NEL 2024 

La frase spesso fin troppo abusata di &ldquo;moto da corsa con targa e specchietti&rdquo; calzava a pennello per questa grintosa ottavo di litro. E lo si nota benissimo ancora oggi

Rewind, Gilera SP 01: fatta per correre

        Che siano auto o moto, gli appassionati del settore sono sempre pronti a scovare offerte dietro l'angolo. Arricchire il proprio garage &egrave; uno degli obiettivi primari per chi ama bulloni, pistoni e artigianalit&agrave;, ecco perch&eacute; l'annuncio della vendita di una concessionaria nel Surrey di due rarissime Honda potr&agrave; attirare l'attenzione di molti. Si tratta di una Honda NR 750 e di una VFR 750 R (RC30).  Le caratteristiche dell'Honda NR 750 La NR 750 come scritto nel 2020 in questo articolo: "&egrave; stata un'autentica bomba lanciata dalla casa di Tokyo sul mercato del periodo. Dalla sua, oltre che linee futuristiche, anche tanti spunti tecnici e di design. Elementi che ancora oggi la vedono come una delle moto pi&ugrave; raffinate di sempre." Monta un motore V4 da 748 cc, con alesaggi uniti per avere pistoni ovali che&nbsp;portavano in dote doppie bielle in titanio per ognuno, testata a 8 valvole per cilindro e&nbsp;iniezione elettronica. Di contro si aveva una notevole complessit&agrave; meccanica, un basamento pesante ed ingombrante, seppure la soluzione della bancata a V limitava (o almeno ci provava) i centimetri laterali. Per la prima volta questa moto aveva accorpato forcelle rovesciate, carenatura in carbonio, scarico sotto la sella, forcellone monobraccio e telaio in alluminio in travi estruse ripresi dalla sorella&nbsp;VFR750 R (RC30). Non dimentichamo, infine, le ruote in magnesio e il parabrezza ricoperto da uno strato indurente al titanio dai riflessi ora violacei ora ambratiNon solo: &egrave; anche conosciuta come la prima Honda che ebbe radiatori montati lateralmente. Honda VFR 750 R (RC30): le caratteristiche della regina degli anni '80 Era il 1987 quando la Honda introdusse sul mercato delle sportive di serie la VFR 750 R o, come molti la ricordano, RC 30.Compatta nelle forme, grazie anche al suo motore V4 da 112 CV a 11.000 giri con cilindri disposti su due bancate. Raffinata quanto grintosa&nbsp;nelle linee della carena con un caratteristico doppio faro, forcellone monobraccio e un peso a secco dichiarato di 185 Kg, e circa 200 Kg in ordine di marcia (pi&ugrave; o meno quanto le attuali sportive).  Honda NR750 &amp; RC30 (VFR750 R): quanto costano La NR750 &egrave; venduta ad un prezzo di 133 mila euro, mentre la VFR750 (RC30)&nbsp;ha un costo pi&ugrave; basso, "solo" 75 mila euro. HONDA COME TESLA: TELECAMERE PER GESTIRE ADAS E CRUISE CONTROL       

Un indizio? Una &egrave; stata un'autentica bomba lanciata dalla Casa di Tokyo sul mercato di inizio anni '90; l'altra &egrave; stata la regina degli anni '80

Honda, due rarissimi esemplari in vendita: quanto costano?

Correva l&#39;anno 1989 e mentre nel nord della Germania la caduta di un muro segnava la fine della Guerra Fredda, al sud gli igegneri bavaresi della BMW avevano appena introdotto sui listini una delle moto pi&ugrave; singolari mai prodotte dalla casa di Monaco: la K1.  Ancora fa parlare di s&egrave;    Basta guardarla per capire che qualche birra di troppo guardando Star Trek, ha influenzato il lavoro di tecnici e designer, che hanno costruito una moto dalle forme abbondanti, spigolose e apparentemente aerodinamiche (solo apparentemente) con in testa l&#39;idea di veicoli futuristici capaci di viaggiare nell&#39;iperspazio. L&#39;intenzione era quella di creare una tourer da alte velocit&agrave; con il massimo della protezione aerodinamica, che potesse garantire alte prestazioni per lunghi intervalli di tempo... una moto da Autobahn tedesca, per intenderci.  Il risultato &egrave; unico nel suo genere, criticato da molti e amato da altrettanti per quelle forme stranissime e decisamente uniche. Sotto le vistose carene, per&ograve;, si celava un powertrain molto meno aggressivo e pi&ugrave; parco sia nei consumi che nelle prestazioni assolute. Non era una moto estrema come voleva mostrare, e questo fu anche il suo tallone d&#39;achille che non la rese un best seller... assieme a un prezzo decisamente elitario di almeno 1/3 superiore rispetto alla concorrenza diretta.  L&#39;abbiamo recensita nell&#39;89 (pur essendo uscita nel 1988) e il tester incaricato della prova non era particolarmente entusiasta sia dell&#39;estetica che delle prestazioni.&nbsp;    A seguire la prova da InMoto di settembre del 1989  &nbsp;  Scioccante, ingombrante,massiccia    La pi&ugrave; grande novit&agrave; sportiva del nuovo corso BMW &egrave; arrivata a oltre sei anni dalla presentazione della prima quadricilindrica della serie K. Forse nel momento peggiore, visto che in una fase di acceso fermento a favore dei pi&ugrave; rigidi limiti velocistici, la casa di Monaco ha presentato la sua macchina pi&ugrave; veloce. La nuova K1 ha comunque ben poco da spartire con le concorrenti, e si distingue per originalit&agrave; filosofica, indole ed ecletticit&agrave; di indirizzo, pur collocandosi nel settore delle sportive da Granturismo.   Prestazioni discutibilmente elevate, anche se ottenute con una potenza massima apparentemente modesta, convivono infatti con un look che definire originale &egrave; davvero poco. la K1 &egrave; scioccante, ingombrante, massiccia e con soluzioni stilistiche e cromatiche talmente temerarie che se fossero state realizzate da un&#39;altra casa molto ciclistica sarebbero state brutalmente condannate e bocciate senza appello. Invece per &quot;sua altezza BMW&quot; siamo ancora in attesa di vedere se una volta introdotta in commercio risulter&agrave; pi&ugrave; digeribile, se col suo caparbio design verr&agrave; a piacere come svariate altre volte &egrave; gi&agrave; successo in passato per i prodotti della casa di Monaco.    Resta comunque incontestabile il fatto che la K1 sia la proposta sportiva pi&ugrave; singolare &egrave; da Ardita dell&#39;intero panorama motociclistico, nonch&eacute; un prodotto decisamente elitario, per una ristretta cerchia di facoltosi utenti alla ricerca di un segno di distinzione con una quota di commercializzazione praticamente fuori mercato: oltre 20 milioni di lire.  Potrebbe senza dubbio vincere il festival dell&#39;originalit&agrave; la Maxi sportiva BMW, ma purtroppo le soluzioni stilistiche &egrave; certa e geniali intuizioni sono mal concretizzate in un contesto sgraziato e poco convincente. Lo styling si estrinseca in forme debordanti, massicce, eterogenee, troppo ingombranti in zona mediane soprattutto in senso trasversale. L&#39;abbondante stile della K1 &egrave; vestito con una livrea bicolore che invece di snellire ed affinare, tende addirittura ad evidenziare le parti meno armoniche. Verniciature e decorazioni sono poco resistenti ed anche&nbsp; se la scelta dei componenti &egrave; di ottimo livello, poco elegante &egrave; la soluzione del parafango anteriore in due gusci e la scarsa precisione dimensionale degli accoppiamenti della carrozzeria.&nbsp;  La K1 offre un inserimento ottimale nel corpo macchina con un corretto aggancio ai fianchi del serbatoio per una impostazione di guida che si rivela piuttosto Versatile, ma il curioso, larghissimo manubrio a sinusoide sembra proprio fuori luogo su di una macchina di questa estrazione. piacevole la sensazione di contenimento longitudinale dovuta al cuscinetto del codino regolabile, mentre la sella piuttosto larga trasversalmente intralcia un poco negli spostamenti. in entrambi i casi il passeggero gode di una ottimale collocazione con le gambe poco contratte ma senza un favorevole maniglione di appiglio.    &nbsp;  Una moto veloce... ma non troppo    Offre una ottimale protezione dall&#39;aria fino a 200 chilometri orari ed una forcella morbida che garantisce Buone capacit&agrave; in cassatorie dello sconnesso, mai afflitta da qualche vibrazione sulle pedane e da un fastidioso calore che investe soprattutto la gamba sinistra nella marcia a bassa velocit&agrave; e non solo nella stagione calda.  Il propulsore &egrave; decisamente unico come architettura d&#39;insieme e ricco anche di soluzioni tecniche inconsuete. I quattro cilindri sono Infatti orizzontali disposti in linea longitudinale. La distribuzione &egrave; a doppio albero a camme in testa, azionata da una catena piazzata anteriormente, con quattro valvole per ogni cilindro. Le camere di combustione hanno una conformazione a tetto con candela disposta al centro. Il gruppo cilindri non &egrave; separato dal basamento ma ricavato direttamente nella fusione di quest&#39;ultimo. Le canne sono integrali con riporto interno al nichel-carburo di silicio. Molto automobilistico &egrave; il manovellismo con i cinque supporti di banco dotati di cappelli amovibili.  L&#39;albero motore &egrave; in acciaio fucinato e sia i cuscinetti di banco che quelli di biella sono a guscio sottile. Dall&#39;estremit&agrave; dell&#39;albero a gomiti il moto viene inviato al cambio tramite un albero ausiliario e una frizione monodisco a secco. Inconsueta &egrave; anche la ciclistica con un telaio a traliccio superiore completato inferiormente dal complesso motore-cambio e una sospensione posteriore monobraccio. Nei nostri rilevamenti al banco la BMW K1 ha fatto segnare 94,1 CV a 8400 g/min con una coppia massima alla ruota di 9,3 kgm a 6.750 g/min. Il peso &egrave; di 259 kg in ordine di marcia. la velocit&agrave; massima dichiarata da BMW &egrave; di 230 km/h ma quella rilevata dal nostro test &egrave; di 240,4 km/h. L&#39;accelerazione da 0 a 100 km orari avviene in soli 3,3 secondi mentre la distanza da 0 a 400 m viene coperta in11,4 secondi. Risultati interessanti ma inferiori alla coeva Honda CBR 1000 F, capace di prestazioni ben maggiori sotto tutti i fronti.    Rewind, Suzuki TL1000R: esperimento (non del tutto) riuscito  &nbsp; 

Nel 1989 abbiamo avuto modo di mettere alla prova una delle moto pi&ugrave; controverse di fine secolo. Una navicella spaziale che in realt&agrave; offriva prestazioni non proprio in linea con il suo look da Star Trek

Rewind, BMW K1: la super tourer che arriva(va) dallo spazio

Antesignana. E&#39; di qualche giorno fa la notizia del ritorno di Kawasaki con una 400 sportiva, la nuova Ninja ZX-4R, che in autunno vedremo in vetrina. La Casa di Akashi non &egrave; nuova a questa proposte a 4 cilindri per la piazza europea. E i meno giovani di certo la ricorderanno.&nbsp; Era il 1989 quando debutt&ograve; sul mercato la&nbsp;prima ZXR 400, la sportiva Kawasaki dotata di motore 4 cilindri in linea. Un segmento che circa 30 anni fa furoreggiava in Giappone dove, complice le norme che riguardavano le patenti per la guida delle maxi 750-1000, piuttosto severe, le &quot;4 sorelle&quot; del Sol Levante si sfidavano con piccoli bolidi a 4 cilindri da 400 (ma anche 250) cc.&nbsp; In Italia la Kawasaki&nbsp;ZXR 400 fu l&#39;unica ad essere importata, seppure in piccoli quantitativi, e rappresent&ograve; per anni l&#39;alternativa a 4T alle pi&ugrave; apprezzate 250 2T: Suzuki RGV Gamma 250 e, in seguito, l&#39;Aprilia RS 250.  Rewind, Honda NR 750: &egrave; ancora la moto pi&ugrave; tecnologica?  Kawasaki ZXR 400: TECNICA DA MAXI  Per controbattere le prestazioni delle guizzanti rivali la Kawasaki ZXR 400, arrivata nel 1989 come &quot;H&quot; e poi aggiornata nel 1991 come versione &quot;L&quot;, metteva in campo il meglio della tecnica applicata all&#39;epoca sulle medie e maxi sportive: telaio doppio trave in alluminio, motore 4 cilindri in linea DHOC 16V, con prestazioni (alla ruota) notevoli. I nostri rilevamenti sul modello provato nel 1997, parlano di 58,44 CV a 12.400 giri, una coppia di 3,41 Kgm a 12.200 giri, per una velocit&agrave; massima di 212 Km/h. Il motore, potente ma ingombrante, chiedeva il suo obolo: la ZXR 400 pesava 182 Kg (in ordine di marcia) il che la allineava al peso di una pi&ugrave; potente media.&nbsp;Per fare un riferimento, rimanendo in casa Kawasaki, la ZX-6R del 1997 pesava 185 Kg. A ci&ograve; si aggiungeva un prezzo di 16.810.000 Lire (circa 8.600 euro di oggi) che la poneva sopra la nuovissima GSX-R 600 presentata nel 1996 di circa 600.000 lire (circa 320 euro).    GIOIELLO PREZIOSO  Nonostante questi &quot;intoppi&quot; la ZXR 400 rappresent&ograve;&nbsp;una degna alternativa per gli amanti della guida sportiva, ma senza avere tra le mani un mezzo eccessivamente impegnativo. Forte di doti ciclistiche e di motore che ancora oggi non sfigurerebbero affatto. A patto di trovarne una ancora a &quot;piede libero&quot;. In effetti, dato l&#39;esiguo numero di esemplari importati e venduti all&#39;epoca, molti proprietari di questo piccolo gioiello se ne guardano bene dal disfarsene.&nbsp;  Quanto costerebbe oggi una Aprilia RS 250 o una Ducati 916?  Per sapere come raccontavamo la Kawasaki ZXR 400 in occasione del nostro test sulle pagine di InMoto del 1997, non vi resta che voltare pagina --&gt;  &nbsp;  &nbsp;  PUROSANGUE ADDOMESTICATA    Da buona sportiva, la Kawasaki ZXR 400 &egrave; piuttosto compatta, ma anche i piloti pi&ugrave; alti riusciranno a trovare una sistemazione accettabile, le maggiori difficolt&agrave; sorgevano invece al momento di accucciarsi dietro al ridotto cupolino. La posizione di guida non &egrave; esasperatamente coercitiva, ma la sella decisamente bassa, crea un inserimento nel corpo macchina che ad alcuni potr&agrave; sembrare eccessivo. Il manubrio &egrave; piuttosto distante, ma non tanto da creare affaticamenti alle braccia, mentre le pedane non sono particolarmente alte da arretrate.  Quando si sale in sella ci si accorge che si tratta di una purosangue ma molto ben addestrata, quasi addomesticata, capace di tirar fuori le unghie, ma solo quando &egrave; il pilota a volerlo; comunque rimane sempre molto docile come se riconoscesse il padrone, a dispetto di una apparenza aggressiva che la vorrebbe data solo a chi ha gi&agrave; il pelo sullo stomaco. Invece anche ai neofiti &egrave; concesso entrare le sue grazie.  Solo nei percorsi strettissimi (cio&egrave; in citt&agrave;) ci si trova un po&#39; a mal partito, mentre appena si acquista velocit&agrave;, la ZXR e trasmette grande sicurezza e ci&ograve; &egrave; dovuto principalmente a due fattori: uno sterzo solido come una roccia &egrave; un propulsore veloce ma mai brusco. Certo se andarci piano &egrave; una cosa andassi forte &egrave; un&#39;altra, per ottenere buone prestazioni ci vuole un minimo di malizia: motore infatti, pur regolarissimo, a basso regime lo spinge pi&ugrave; di tanto, cos&igrave; va mantenuto sempre su di giri (al di sopra di quota 10.000), e in curva bisogna cercare di perdere meno velocit&agrave; possibile, ed in questo la piccola Kawasaki aiuta, grazie proprio al granitico avantreno, che permette di affrontare i curvoni insicurezza a gas spalancato, pennellando le tre torri al millimetro.    Kawasaki ZXR 400: IL MOTORE  La curva di erogazione &egrave; incredibilmente ampia, basti pensare che il limitatore entra in funzione a 15.000 giri indicati, ma &egrave; possibile viaggiare in sesta a 1500 giri, pena soltanto qualche lieve incertezza all&#39;apertura del gas.  Gi&agrave; a 4000 giri il tiro si regolarizza, a&nbsp;partire dagli&nbsp;8000 giri il motore comincia a spingere in maniera sostanziosa, in un continuo crescendo accompagnato dall&#39;urlo dello scarico, l&#39;accelerazione si stempra&nbsp;solamente con l&#39;approssimarsi della zona rossa. Nella classica prova di accelerazione sui 400 m la ZXR 400 spunto un ottimo 12,2 secondi grazie ad un avantreno ben saldo a terra che permette di aprire il gas senza tanti riguardi. La velocit&agrave; massima fatta registrare &egrave; di 212,1 km/h superiore a quella delle sportive due tempi di 250 cc.  Rewind, Kawasaki ZXR-750 &#39;91: equilibrio verde 

Indole racing, potente e gasante con quel motore da 15.000 giri. Pesava quasi quanto&nbsp;una media del periodo e non costava poco, ma per prestazioni globali &egrave; ancora oggi una moto godibilissima (a patto di trovarne una)

Rewind, Kawasaki ZXR 400: piccola grande sportiva

Quella che oggi chiamiamo &ldquo;Crossover&rdquo;, un tempo era definita moto &ldquo;totale&rdquo;: mezzo dalla guida comoda, alta, come le endurone, abbinate per&ograve; a ruote da stradale pura. Moto con cui poter fare di tutto: viaggi, veloci sgroppate sui passi di montagna o in collina, anche leggere divagazioni in off-road. In tanti provarono ad inseguire questa sorta di Sacro Graal, negli anni &lsquo;80, ma nessuno ci riusc&igrave;. Almeno fino al 1991 quando poggi&ograve; le sue gomme su asfalto la Yamaha TDM 850, la prima, vera, moto totale o Crossover.  Bicilindrico stradale e le grosse enduro    Erano nei fatti, le moto che maggiormente evocavano l&rsquo;immagine delle grandi traversate, irrobustita dagli spazi sconfinati delle maratone africane. In Casa Yamaha l&rsquo;esempio arrivava dalla splendida XTZ 750 Super T&eacute;n&eacute;r&eacute;, dotata di bicilindrico fronte marcia e comfort di alto livello. Ma come spesso accade, e Yamaha nella sua storia &egrave; sempre stata grande esempio, arriva poi il momento di esplorare nuovi concetti, tentare il &ldquo;salto&rdquo;.  Ecco che nel 1991 fa il suo debutto la innovativa TDM 850. Un oggetto - se vogliamo - strano a vedersi, con quel telaio doppio trave che sembrava preso in prestito sportive FZR, i cerchi da 18&rdquo; anteriore e 17&rdquo; posteriore, il tutto traslato verso lo schema del manubrio alto e sospensioni a lunga escursione. Ancora non lo si capiva, ma da quel momento in poi Yamaha sfond&ograve; la terza dimensione delle moto inaugurando quello che sarebbe poi diventato il segmento delle crossover: mezzi che abbinano il comfort delle grosse e paciose enduro alle doti dinamiche delle pi&ugrave; guizzanti stradali.  MEGLIO TARDI CHE MAI    Sulle prime la TDM 850, ad onor del vero, non riscosse il successo che probabilmente meritava. Tanto diversa quella moto, troppo fuori dagli schemi. Era un qualcosa, nel tradizionalmente conservatore mondo dei motociclisti, difficile da apprezzare. E s&igrave; che di spunti la TDM ne aveva da offrire&hellip;  Da un punto di vista tecnico la 850 del 1991 partiva dalla motorizzazione della Super T&eacute;n&eacute;r&eacute; 750, un bicilindrico fronte marcia dotato di testata con cinque valvole radiali, incrementato nel valori di centimetri cubi aumentando alesaggio e corsa, con potenza di 78 cavalli.  Attorno al motore venne realizzato un telaio perimetrale in acciaio di tipo Deltabox che ricalcava lo schema delle sportive, completato per&ograve; da sospensioni ad escursione relativamente lunga e da uno manubrio, largo e rialzato, che arrivava dal mondo delle endurone. Una genesi che si notava anche dalla posizione di guida, con il busto del pilota che ne risultava eretto Le linee, decisamente innovative, completavano un layout di moto dall&rsquo;aspetto personalissimo.  &nbsp;  &nbsp;  UN NUOVO CONCETTO    I risultati di quel progetto si notavano da subito nella guida: la TDM era comoda, affatto affaticante anche dopo lunghi percorsi, con il plus di avere tra le gambe un oggettino che guizzava sciolto tra i tornanti. Ecco palesarsi il concetto &ldquo;crossover&rdquo;.  Un concetto che nelle stagioni successive conobbe affinamenti. A partire dal 1996 quando in Yamaha si decise per un primo restyling. La carrozzeria venne sostanzialmente rivista: la parte anteriore adott&ograve; un diverso disegno del doppio faro, che pass&ograve; da due parabole tonde ad una pi&ugrave; aggressiva coppia di &ldquo;occhietti&rdquo; che facevano capolino nella parte inferiore del compatto frontale.  Le linee generali ne risultavano morbide ed aggraziate, con il codino minimalista che mantenne i tratti della prima serie. Aggiornamenti arrivarono anche alle sospensioni con una forcella da 43 mm (prima erano 41mm) di diametro; il cambio vide una rivisitazione dei rapporti in terza e quarta marcia. Il motore mantenne lo schema precedente, ma con i perni di biella sfalsati di 270&deg; in luogo dei precedenti 360&deg;. Il telaio rivisto nel passo (-5 mm) port&ograve; ad avere una moto pi&ugrave; compatta che, al&nbsp;pari di&nbsp;un abbassamento del baricentro, esaltava le doti di maneggevolezza.  &nbsp;  ARRIVA LA 900    La TDM inizi&ograve; mano mano a farsi strada tra le preferenze degli utenti, risultando per anni una delle moto pi&ugrave; apprezzate (e vendute) sul mercato.&nbsp; Sulla scia dei trionfi commerciali nel 2001 arriv&ograve; un sostanziale step evolutivo (dopo un ulteriore affinamento al progetto nel 1999).  Al Salone di Parigi di quell&rsquo;anno, in occasione dei 10 anni dal lancio della prima 850, sbuc&ograve; fuori da un telo la TDM 900, moto che solo in apparenza era simile alla precedente. Nella realt&agrave; le migliorie apportate ad Iwata ne incrementano ancora di pi&ugrave; la polivalenza nell&rsquo;utilizzo, oltre che efficacia nella guida. Il motore crebbe di cilindrata fino agli 897 cc, arriv&ograve; l&rsquo;iniezione elettronica, e di pari la potenza arrivo a 87 CV; il telaio cambi&ograve; struttura, non pi&ugrave; in acciaio ma in alluminio, diventando di fatto pi&ugrave; sportivo oltre che pi&ugrave; rigido e pi&ugrave; leggero di 6 kg; le ruote, alleggerite, erano entrambi da 17&rdquo; di diametro.  Da quel momento in poi la TDM non sub&igrave; che affinamenti di dettaglio, restando in listino fino al 2011. Nel 2015 Yamaha ripesc&ograve; i concetti di quella moto evolvendoli ulteriormente e portando poi alla ribalta la Tracer 900. Un&#39;altra storia che pesca per&ograve; a piene mani da quella &ldquo;moto totale&rdquo; che arriv&ograve; sul mercato 30 anni fa...  &nbsp;  PROVA SU STRADA YAMAHA TDM 850 1991    L&#39;eccitazione che trasmette la TDM e di quelle particolarissime: sembra di avere finalmente tra le mani lo strumento a due ruote col quale poter fare effettivamente di tutto ed abbiamo potuto rendercene ben conto nel corso della nostra lunga prova.  C&#39;&egrave; piaciuta in citt&agrave; perch&eacute; non ci aspettavamo tanta maneggevolezza da una moto cos&igrave; alta, grossa e pesante. Ce la siamo goduta il lunghe tirate autostradali perch&eacute; pu&ograve; mantenere medie elevate senza particolare stress per il pilota e senza apparente sforzo per il propulsore.  Ce la siamo gustata in un paio di eccitanti sparate sulle strade di montagna dove permette di acquisire un ritmo eccellente e redditizio, ma soprattutto abbiamo anche che potuto assaporare appieno tutte le sfumature nelle numerose divagazioni che ci siamo concessi: dalle puntate in pista dove abbiamo generosamente limato le ginocchiere, alle esibizioni in fuoristrada, su stradine sterrate dove, dopo un po&#39; di tirocinio, il comportamento ed il rendimento non sono poi di tanto inferiori a quelli delle altrettanto pesanti maxi enduro, e ci si pu&ograve; produrre in qualche gloriosa e leale scodata in perfetto stile supermotard.  Solo sui percorsi davvero angusti il baricentro alto e la mole si fanno sentire, togliendo un po&#39; di armonia all&#39;avantreno che si fa conseguentemente pi&ugrave; pesante, ma basta superare i 50 km/h per sentire lo sterzo riequilibrarsi, farsi neutro e garantire inserimenti sicuri e progressivi con grande margine di sicurezza. Sul veloce l&rsquo;inerzia direzionale non tende mai ad amplificarsi, ma si verifica solo un percettibile aumento della sensibilit&agrave; dell&#39;avantreno, che risulta pi&ugrave; evidente su fondo sconnesso. Nella marcia rettilinea ad elevata velocit&agrave; non manca qualche oscillazione dell&#39;esito tuttavia prevedibile, amplificata dalla presenza del passeggero.  Il rendimento della sospensione posteriore &egrave; spesso in buona sintonia con quello a pi&ugrave; ampio spettro della forcella. Il reparto trasmissione prevede una frizione modulabile, quanto dolce da disinnestare, che accusa solo qualche rumorosit&agrave; se viene sfruttata sconsideratamente, mentre il cambio si fa ruvido e rumoroso se viene utilizzato troppo sportivamente.  Rewind, Suzuki DR 750 Big: la grande scommessa 

Telaio e ruote da stradale, sospensioni a lunga escursione e manubrio alto, nel 1991 &nbsp;apr&igrave; un&rsquo;era oggi al massimo del suo fulgore: l&rsquo;era delle moto &ldquo;crossover&rdquo;

Rewind, Yamaha TDM 850: e fu la moto totale

Erano gli anni &#39;80, decennio di enormi cambiamenti sociali che ha portato al consumismo scatenato e alla visione di un futuro fatto di benessere e grande crescita. Nascevano nuovi modi di intendere la mobilit&agrave; e si vedevano sempre pi&ugrave; motociclette sulle strade, tanto che Honda decise di creare la Pacific Coast 800 una moto unica nel suo genere utilizzando principi tecnici e costruttivi presi dal mondo auto e rivisti per stare fra due sole ruote.  Rewind, Kawasaki ZZR 1100: la superdotata  VESTITO AVVOLGENTE    Da subito si capisce che questa moto &egrave; fuori dagli standard, anche per lo sguardo allenato del motociclista del 2020. La carena che avvolge tutto il perimetro della moto &egrave; figlia del concetto di &ldquo;ermetismo&rdquo; di quegli anni, ma portato all&#39;estremo con quasi tutta la ruota posteriore coperta e quella anteriore carenata fino a coprire il disco e la pinza. Lo scopo di un design cos&igrave; radicale non era solo estetico, ma garantiva la massima protezione aerodinamica possibile per l&#39;epoca e isolava dal rumore meccanico rendendo la moto particolarmente silenziosa e confortevole.  Dopotutto il centro stile Honda USA che ha disegnato questa moto (su specifiche richieste del mercato statunitense) ha definito la PC800 la &ldquo;moto dei colletti bianchi&rdquo;, ovvero degli uomini in carriera in giacca e cravatta dell&#39;economia galoppante di fine millennio.  Sempre parlando dei concetti automobilistici applicati, notiamo che la colorazione bitono divide la parte inferiore da quella superiore proprio come le auto, mentre dalla sella si apprezza una strumentazione completa, grande e ben leggibile racchiusa in un quadro che richiama il cruscotto della Honda Accord dell&#39;epoca. Anche le plastiche che circondano la strumentazione e che ricoprono il manubrio hanno un effetto goffrato tipico degli interni delle auto.  TOP TOURER  Da turistica supercomoda, la PC800 ha anche spazio di carico, e per questo &egrave; stata dotata di un vero e proprio bagagliaio, che si pu&ograve; definire l&#39;elemento pi&ugrave; distintivo in assoluto di questo modello: la parte sottostante alla sella del passeggero, infatti, si separa dalla base in un unico pezzo aprendo tutta la parte posteriore come se fosse il baule di una berlina, un effetto scenico da 10 e lode e una effettiva comodit&agrave; in pi&ugrave;, che ha portato a condizionare tutto il design posteriore costringendo a sistemare la parte ottica (anche questa enorme e ispirata ai fari delle Honda a quattro ruote) ad un posizionamento molto basso. L&#39;effetto &quot;wow&quot; &egrave; assicurato e pure questa ennesima conversione automobilistica al tempo giudicata da molti troppo radicale, ha un senso ben definito e un&#39;armonia unica che ha ben retto al peso degli anni.&nbsp;    Ma la tecnica? Pi&ugrave; motociclistica di quanto possiamo immaginare: il motore &egrave; il bicilindrico a V di scuola XLV Africa Twin che gi&agrave; conosciamo bene, inserito in un telaio in traliccio di tubi di acciaio e abbinato a una forcella di tipo tradizionale all&#39;anteriore e un doppio braccio posteriore con trasmissione cardanica e ammortizzatore a doppia molla. Un pacchetto dinamico sufficiente per gestire i 62 CV di potenza massima, che garantivano prestazioni per niente esaltanti penalizzate anche dal peso di 262 kg, unica nota dolente della scheda tecnica.  Rewind, Honda VTR SP-2: la rivincita di Tokyo  Gira pagina e leggi la prova su InMoto del 1990:  &nbsp;  Sul numero 201 del 1990 di InMoto scrivevamo in merito alle doti dinamiche:  &ldquo;Le dimensioni tutt&#39;altro che contenute della PC 800 lasciano un po&#39; scettici sulla sua reale facilit&agrave; di guida. Nel misto-stretto, invece, la padronanza di questo mezzo non conosce limitazioni di sorta, lo sterzo risponde in modo diligente ai comandi impartiti dal pilota con l&#39;avantreno che rimane ben saldato al suolo in ogni circostanza. Col salire della velocit&agrave;. A fianco di un&#39;elevata precisione direzionale, aumenta sensibilmente l&#39;inerzia che non consente fulminee correzioni di inclinazione o traiettoria.    Sullo sconnesso comunque, la taratura &ldquo;controllata&rdquo; delle sospensioni non porta mai ad incappare in vistosi ondeggiamenti ed oscillazioni tali da costringere a rallentare l&#39;andatura. Anche il peso, evidentemente collocato in modo equilibrato, non pone limitazioni di sorta mentre sui veloci curvoni guidati non &egrave; raro riscontrare nel comportamento della Pacific Coast una certa tendenza dell&#39;avantreno ad allargare se si eccede con la velocit&agrave;. Le ottime possibilit&agrave; di inclinazione (rare in macchine di questo tipo) sono assecondate da coperture dotate di discreto grip mentre nelle improvvise variazioni di velocit&agrave; si deve lavorare con pi&ugrave; determinazione di manubrio negli inserimenti in curva&rdquo;.  Ma...che senso ha una moto che si crede un&#39;auto?  Probabilmente lo scopo del marketing USA era quello di offrire mobilit&agrave; su due ruote anche a chi &egrave; da sempre stato affezionato alle quattro, offrendo un prodotto che potesse far sentire a proprio agio con chicche tecniche e di comfort che unissero i due mondi. Il prezzo di circa 14 milioni di lire nel mercato italiano non era affatto basso, anzi era pure caruccia, e per questo non si &egrave; mai trattato di un progetto dedicato alle masse, ma pi&ugrave; che altro a quegli uomini in carriera che amano girare in citt&agrave; in maniera comoda con lo smoking e fare qualche gita fuori in totale relax. Proprio quei &ldquo;colletti bianchi&rdquo; a cui si riferisce il centro stile americano.     La Pacific Coast 800 &egrave; rimasta in produzione dal 1989 al 1998 con una media di vendite di 1.400 unit&agrave; all&#39;anno, non un successo planetario ma nemmeno il pi&ugrave; umiliante dei fallimenti. In Italia ne abbiamo viste comunque pochissime, non era proprio la moto adatta ai mercati mediterranei ma &egrave; stata comunque un&#39;icona di quegli anni anche da noi. Ora si trova usata in buone condizioni a cifre fra i 3.000 e i 4.500 euro, ma se state pensando di mettervene una in garage non esitate troppo, i prezzi delle youngtimer come lei stanno salendo in modo vertiginoso!  Ricomprare la moto gi&aacute; avuta? Pensateci bene 

Verso la fine degli anni &#39;80 Honda sforn&ograve; una moto capace di unire il mondo delle due e delle quattro ruote con una proposta innovativa e ancora oggi ricca di fascino

Rewind, Honda Pacific Coast 800: la moto in smoking

Quando l&#39;Italia andava a &quot;due&quot; ed il Giappone a &quot;quattro&quot;.&nbsp;Ovviamente parliamo di moto e nello specifico praliamo di motori. Al periodo parole come &quot;modularit&agrave;&quot; per certi motori erano poco pi&ugrave; che lettere sfocate che a volte venivano pronunciate quasi in modo &quot;doveroso&quot;. Quella degli anni &#39;80 era un&#39;epoca decisamente di opulenza, in fatto tecnico, dove per ogni tipologia di moto vi era il propulsore&nbsp;pi&ugrave; adatto tecnicamente (o reputato tale anche in virt&ugrave; di un certo appeal verso i diversi gusti del&nbsp;pubblico).  ARCHITETTURE SU MISURA    Moto sportiva? Il quattro cilindri spadroneggiava, meglio se in linea. Enduro? monocilindrico di rigore; anche il V2 o il bicilindrico parallelo avevano la loro fetta da spartirsi, in caso di endurone pi&ugrave; oversize come le 750.&nbsp;  Questo soprattutto se guardiamo alle Case giapponesi. Per i marchi di casa nostra... beh, il concetto era pi&ugrave; sfumato. Ducati, ma anche Guzzi, puntavano o optavano per l&#39;architettura a V per i due cilindri. Realizzandoci attorno mezzi di vario segmento e cilindrata.  Guardando le protagoniste di questa sfida d&#39;annata si nota bene e meglio il concetto:&nbsp;Yamaha, Suzuki, Kawasaki, Honda con gli inscalfibili 4 in linea, contro&nbsp;due italiane Ducati e Guzzi dotate&nbsp;di motori a V (longitudinale il motore bolognese, trasversale quello Guzzi).&nbsp;  Erano le medie &quot;sportive&quot; del periodo. Oggi le definiremmo quasi delle sport-tourer, per doti di guida e comfort, e non avevano ancora raggiunto l&#39;appeal delle sorelle maxi, moto&nbsp;pi&ugrave; blasonate ed ambite, ma avevano il loro &quot;perch&egrave;&quot; e in qualche caso (vedi Honda CBR o Yamaha FZ) diedero vita in seguito ad un segmento a parte con le relative medie sportive che iniziarono a rivaleggare con le pi&ugrave; potenti sorelle maxi.&nbsp; Conosciamole meglio, tutte quelle che erano considerate della &quot;macchine a misura d&#39;uomo&quot;&nbsp;, da uno servizio pubblicato su&nbsp;InMoto di giugno del&nbsp;1988.  &nbsp;  Moto&nbsp;Guzzi V65 Lario    Evoluzione della classica sportiva all&#39;italiana, rigorosamente bicilindrica e relativamente sobria (proposta in quel periodo ad un prezzo molto conveniente) che garantiva gran feeling agli appassionati di gusti classici, quelli a cui piace sentire&nbsp;pulsare vivo il motore.  La serie dei quattro valvole sportivi Guzzi rappresentava&nbsp;stilisticamente un inconfondibile classico&nbsp;nel loro&nbsp;styling spigoloso, forse sgraziato ma di certo originale. Presentava&nbsp;finiture migliorabili&nbsp;anche se il salto qualitativo era&nbsp;evidente rispetto alla precedente produzione.&nbsp;La V 65 Lario era&nbsp;la&nbsp;pi&ugrave; a buon mercato&nbsp;di questa nostra prova parallela e se da un lato forniva&nbsp;prestazioni limitate dalla cilindrata, dall&#39;altro era&nbsp;in grado di garantire il&nbsp;divertimento&nbsp;con una guida &quot;all&#39;italiana&quot; anche se&nbsp;con la ruota anteriore da 16&quot; per adeguarsi alla moda&nbsp;lanciata a suo tempo dai costruttori giapponesi.    I rilevamenti parlavano di:  Peso a secco 172 kg. Velocit&agrave; massima 191,2 km/h. Accelerazione 0-100 km/h 5&quot;2. Accelerazione 0-400 metri 13&quot;1 - 159,5 km/h. Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 14&quot;8 - 133,6 km/h. Potenza massima 50,7 CV a 7500 giri/min. Coppia 5,1 kgm a 6000 giri/min. Peso in ordine di marcia 187,2 kg.  &nbsp;  Ducati Paso 750    Non propriamente una sportiva, fu una sorta di&nbsp;ibrido,&nbsp;che&nbsp;ottenne&nbsp;grande successo oltreoceano, mentre sul nostro mercato venne meno recepita. Sotto ad una veste estremamente ricercata (realizzata da Tamburini) che ha fatto proseliti anche fra le stesse aerodinamiche concorrenti giapponesi, si nascondeva un cuore&nbsp;dal gusto classico. Il bicilindrico a &quot;elle&quot; Desmo 2 valvole Ducati di 748,1 cc alimentato da un carburatore doppio corpo Weber, aveva una&nbsp;potenza massima di 61,5 cv alla ruota a 7750 giri, dimostrandosi forte in ripresa, soprattutto, ma pure le prestazioni di punta rilevate non erano male.    I rilevamenti parlavano di: Velocit&agrave; massima 204,7 km/h, Accelerazione 0-100 km/h 4&quot;7, Accelerazione 0-400 metri 12&quot;5 - 167,0 km/h, Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 13&quot;6 - 151,4 km/h, Potenza massima 61,4 CV a 7750 giri/min. Coppia 6,2 kgm a 5500 giri/min. Peso in ordine di marcia 202,0 kg.  &nbsp;  Yamaha FZ 600 R    Per quanto&nbsp;di piglio pi&ugrave; sportiveggiante, rientrava&nbsp;nell&#39;ambito delle sportive tradizionali alla giapponese, cio&egrave; molto equilibrate, versatili e dal prezzo accessibile che si distingueva per il look da racing replica e per le equilibrate prestazioni.  Aggressiva nella linea, con i colori classici della Casa di Iwata, con in bella vista le&nbsp;vistose decorazioni a bande laterali.&nbsp;Inoltre era&nbsp;l&#39;unica all&#39;epoca ad offrire la &quot;chicca&quot;&nbsp;poi&nbsp;tanto di moda del doppio gruppo ottico anteriore.&nbsp;Sportiva nella guida, supportata da una posizione in sella &quot;racing&quot; per gli standard del periodo. Dalla sua un motore 4 cilindri raffreddato ad aria accreditato di una potenza di quasi 50 CV con una erogazione brillante ai medi regimi, abbinata per&ograve; a non elevatissime doti di allungo, malgrado l&#39;indole sportiva della moto.    I rilevamenti parlavano di:  Velocit&agrave; massima 208,8 km/h. Accelerazione 0-100 km/h 4&quot;6. Accelerazione 0-400 metri. 12&quot;4 - 169,1 km/h Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 14&quot;0 - 144,6 km/h. Potenza massima 54,6 CV a 9400 giri/min. Coppia 4,5 kgm a 7500 giri/min. Peso in ordine di marcia 193,8 kg.  &nbsp;  Honda CBR 600 F    Fu colei che di fatto ha&nbsp;dato il via&nbsp;alla moderna gen&igrave;a delle 600 supersportive,&nbsp;una&nbsp;moto di riferimento per equilibrio tecnico e prestazionale, unita ad un look di grande effetto.&nbsp;Pi&ugrave; delle sue forme sinuose, arrotondate ed accuratamente raccordate, che costituivano un complesso monolitico fra carenatura, serbatoio e fiancate, affascinava lo&nbsp;straordinario equilibrio&nbsp;che la caratterizzava.&nbsp;&nbsp;Riusciva ad offrire&nbsp;una&nbsp;posizione di guida granturistico-sportiva&nbsp;azzeccata e reclinata in avanti per sfruttare con naturalezza la protezione del compatto cupolino, che offriva&nbsp;una buona protezione aerodinamica ma solo se si stava bene accucciati.  Il temperamento del suo motore quadricilindrico, da oltre 74 cv alla ruota a 10800 giri, era spiccatamente sportivo (per l&#39;epoca) ed anche se ai bassi regimi funzionava senza problemi di fluidit&agrave;, amava comunque girare alto e rendere il meglio a partire dai 7.500 giri.    I rilevamenti fatti al periodo parlavano&nbsp;di:  Velocit&agrave; massima 229,3 km/h, Accelerazione 0-100 km/h 3&quot;8, Accelerazione 0-400 metri 11&quot;7 - 183,4 km/h, Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 14&quot;5 - 142,6 km/h,&nbsp;Potenza massima 74,1 CV a 10800 giri/min. Coppia 5,3 kgm a 9750 giri/min. Peso in ordine di marcia 196,9 kg.  &nbsp;  Kawasaki GPx 600 R    Si collocava in una posizione intermedia tra le rivali giapponesi, perch&eacute; senza dubbio pi&ugrave; versatile della Honda ma non meno dotata sul piano prestazionale. Dalla sua un aspetto &quot;solido&quot; e concreto (con linee gii&agrave; note per la sorella 750) per una moto che garantiiva una guida facile e intuitiva (nonostante fosse la pi&ugrave; sportiva come posizione di guida) abbinata ad un motore potente e dalle prestazioni complessive molto elevate.&nbsp;&nbsp;  Il suo quattro cilindri in linea risultava&nbsp;il pi&ugrave; potente della categoria&nbsp;con 74,8 CV alla ruota a 10.300 giri rilevati, ma &egrave; anche&nbsp;quello pi&ugrave; dotato di coppia e tiro ai regimi intermedi, come dimostravano le prestazioi in accelerazione.    I rilevamenti parlavano di:   Velocit&agrave; massima 226,8 km/h. Accelerazione 0-100 km/h 3&quot;8. Accelerazione 0-400 metri 11&quot;8 - 182,9 km/h. Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 13&quot;9 - 149,0 km/h.&nbsp;Potenza massima 74,8 CV a 10300 giri/min. Coppia 5,2 kgm a 8500 giri/min. Peso in ordine di marcia 198,4 kg.  &nbsp;  Suzuki GSX 600 F    Era l&#39;ultima arrivata nel settore (ma con tutte le intenzioni di essere la prima) si poneva in diretto critico confronto con la Honda CBR 600 F, alla quale si avvicinava per scelte aerodinamiche, prestazioni, qualificazione, meccanica e... prezzo.  A livello di design, tra le rivali, presentava forse&nbsp;le&nbsp;forme pi&ugrave; sgraziate&nbsp;ma che risponevano comunque a precise esigenze di funzionalit&agrave; e aerodinamica. Dalla sua la media Suzuki mostrava inoltre&nbsp;una&nbsp;eccellente meccanica e ciclistica.&nbsp;Una moto che&nbsp;badava al sodo,&nbsp;la GSX 600 F, con&nbsp;finiture non ricercatissime&nbsp;ma con tanta sostanza. L&#39;&nbsp;impostazione di guida era estremamente versatile&nbsp;per macinare chilometri su chilometri&nbsp;senza stress, ma che per la buona correlazione fra sella e manubrio, si dimostrava ottima anche qualora si desiderasse&nbsp;spingere a fondo.    I rilevamenti parlavano di:  Peso a secco 188 kg.&nbsp;Velocit&agrave; massima 222,7 km/h. Accelerazione 0-100 km/h 3&quot;9. Accelerazione 0-400 metri 11&quot;9 - 181,0 km/h. Ripresa da 50 km/h 0-400 metri 14,7 - 139,0 km/h. Potenza massima 76,6 CV a 10700 giri/min. Coppia 5,4 kgm a 9500 giri/min. Peso in ordine di marcia 209,5 kg. 

Yamaha, Suzuki, Kawasaki, Honda ma anche le due italiane Ducati e Guzzi: sportivit&agrave; ed equilibrio. Una sfida che arriva dal 1988

Rewind, le medie sportive di fine anni &#39;80: tocchi di classe

Maxi di gusto. Alle fine degli anni &#39;80 la maxi sportivit&agrave; in salsa Kawasaki era figlia di quella che all&#39;apoca era la ZX-10, una moto che concettualmente non aveva nulla a che spartire con le moderne superbike di Akashi. Il mondo delle race replica era sostanzialmente demandato alla categoria 750 e per il mondo &quot;maxi&quot;&nbsp;Case &nbsp;come Honda e, appunto, Kawasaki, proponevano mezzi che si distinguevano per una pi&ugrave; spiccata&nbsp;vocazione sport tourer.    MAXI GUSTO KAWA  Su questa scia, evolvendo la efficace ZX-10, nacque nel 1990 la ZZR 1100, una moto che spostava ancora pi&ugrave; in alto l&#39;asticella delle prestazioni rispetto, non solo alla progenitrice, ma anche alle varie concorrenti come la Honda CBR 1000 F.  La nuova maxi Kawasaki metteva sul piatto numeri al periodo da... paura: motore 4 cilindri in linea da 152 CV all&#39;albero (132 CV alla ruota) a 9.900 giri per una coppia massima di 10.9 Kgm a 8.500 giri, alimentato da carburatori Kehin CVK 40 (con controllo elettronico del getto principale). Il tutto abbinato ad un telaio doppio trave perimetrale in alluminio, donominato Double-Box, e ad una crenatura affilata che offriva uno dei pi&ugrave; bassi CX dell&#39;epoca: appena 0,30. Il peso era importante: 250 Kg sulla bilancia in ordine di marcia.    Rewind, Kawasaki ZXR 400: piccola grande sportiva  Gira pagina per leggere la nostra prova su InMoto del 1990:  &nbsp;  KAWASAKI ZZR 1100: NUMERI DA CAPOGIRO    L&#39;abitudine alle scomodit&agrave; delle racing replica dell&#39;ultima generazione ci aveva fatto dimenticare il comfort di una granturismo comoda ed accogliente come questa maxi Kawasaki. Il pilota &egrave; sontuosamente alloggiato in un posto di guida quasi ottimale con distanze corretta e tra pedane, sella (comodissima) e manubrio. Anche il manubrio stesso &egrave; stato ben posizionato per evitare carichi eccessivi sui polsi.  Caratterizzata da una grande fruibilit&agrave; anche nella guida sportiva, la ZZR 1100 sfoggia anche sospensioni dalla taratura morbida, ma la dote che colpisce di pi&ugrave; in questa maxi e decisamente la facilit&agrave; con la quale si fa condurre e di ridotto impegno che richiede al pilota. Merito della azzeccata geometria dello sterzo e della buona distribuzione dei pesi, il tutto bene in sintonia con il lavoro svolto dalla gomme. Che fanno portare la moto al limite con grande disinvoltura.  Gli angoli di piega a causa di cavalletti e pedane, non sono a livello di quelli (quasi fantascientifici) delle pi&ugrave; recenti superbike replica, ma la ZZR si dimostra sempre coerente e precisa nel mantenere la traiettoria. Ma indubbiamente il massimo contributo nella gioia di guidare lo offre un incredibile motore: una vera miniera di cavalli che offre sempre una costante e eccitante spinta in avanti anche nelle marce alte e questo nonostante i rapporti lunghi. La ZZR 1100 in accelerazione pu&ograve; passare da 0 a 100 km/h in soli 2,6 secondi oppure coprire i 400 m in 10,1 e di km in 19 secondi netti con velocit&agrave; di uscita rispettivamente di 217,8 e 258 km/h, la velocit&agrave; massima &egrave; di 285 km/h rilevati. Su livelli pi&ugrave; &quot;umani&quot; e invece il funzionamento del reparto freni e della trasmissione.  Rewind, Ducati 851 S: l&igrave; dove tutto &egrave; cominciato 

Quella che all&#39;apparenza era una comoda e grintosa tourer sfoderava una guida facile a dispetto di un motore di 152 cv che spingeva la maxi di Akashi ai 285 Km/h

Rewind, Kawasaki ZZR 1100: la superdotata

Grintosa e brillante. La Gilera GFR uscita nella versione &ldquo;Replica&rdquo;, riproduceva in maniera decisamente fedele la sorella maggiore 250 da GP, con la quale condivideva forme e colori. Era l&#39;erede della serie di sportive che dal 1989 (SP01e poi SP02) al 1992 (con la Crono) il marchio di Arcore lanci&ograve; sul mercato.  La piccola e rinnovata Gilera tagliava i ponti con i modelli precedenti sia da un punto di vista tecnico che estetico. E&#39; ricordata come l&#39;ultima realizzazione Gilera - al periodo gi&agrave; facente parte del Gruppo Piaggio - nel campo delle ottavo di litro (e non solo) supersportive, un filone che a ben guardare venne inaugurato proprio dalla Casa dei due anelli qualche anno prima con l&#39;uscita sul mercato della KZ, seguita a breve giro dalla pi&ugrave; carenata KK. Nel 1994 lo storico stabilimento di via Cesare Battisti 70, ad Arcore, venne chiuso e la produzione spostata a Pontedera, ma la piccola GFR non trov&ograve; spazio e dopo sole due stagioni venne tolta dai listini.  GILERA GFR: COM&#39;&egrave; FATTA    Contraddistinta da un generoso dimensionamento, da un retrotreno imponente e da proporzioni bene armonizzate anche se pi&ugrave; sviluppate in altezza che in lunghezza, era caratterizzata da uno standard di finiture allineato alla produzione nazionale, anche se con alcuni nei. Ci si riferisce al telaio in acciaio (parzialmente rivalutato dal forcellone monobraccio) anzich&eacute; in lega leggera, ai dozzinali e inutili specchi retrovisori, e alla soluzione del doppio tappo del carburante e del lubrificante allineato sul serbatoio.  Ben realizzati invece erano il copricodino, che trasformava la sella monoposto in biposto, la piastra superiore della forcella e i comandi a pedale. La strumentazione, dotata di grandi strumenti dalla vivace grafica, risultava incassata nel cupolino. Manco a dirlo, la posizione di guida era piuttosto sportiva e abbastanza caricata in avanti, anche se in maniera meno spinta rispetto a rivali come Aprilia RS e Cagiva Mito.  GIlera GFR 125: le prestazioni rilevate    Con una potenza massima i 31,5 cv a 11.300 giri e una coppia di 2kgm a 10.800 giri, la Gilera GFR/SP forniva prestazioni vivaci, con una punta velocistica di 171,1 km/h effettivi con 6&rdquo;7 per passare da 0 a 100 km/h  Gira pagina per leggere il test su In Moto del 1993:&nbsp;  &nbsp;  Gilera GFR, IL TEST del 1993    Decisamente meno agile della precedente Crono, la GFR risulta pi&ugrave; impegnativa da condurre soprattutto nelle rapide inversioni di inclinazione e nelle variazioni di traiettoria alle velocit&agrave; medie e alte, ma in compenso vanta uno sterzo a prova di bomba, solidissimo in qualsiasi situazione, anche sullo sconnesso, ove l&rsquo;assetto rigido fa di tutto per screditare la bont&agrave; della ciclistica. Pe cui, per quanto risulti meno duttile delle rivali, la GFR trasmette grande sicurezza in ogni frangente, e quando il gioco si fa duro e si spinge a fondo in pista, evidenzia un limite davvero alto e gratificante.  Coperture e freni: rendimento omogeneo, ma si poteva fare di pi&ugrave;    Peccato che le coperture Dunlop di primo equipaggiamento, progressive nella discesa in piega e omogenee nella resa chilometrica, non forniscano quell&rsquo;appoggio e quel grip alle inclinazioni estreme che ci si aspetterebbe per sfruttare a fondo la piccola sportiva Gilera. Pur fornendo un rendimento omogeneo e adeguato a una sportiva di razza, i freni sembrano sulle prime poco pronti nell&rsquo;intervento ed &egrave; necessario pinzare a fondo per ottenere il meglio.  Lo scarso freno idraulico in compressione della forcella, e in estensione per l&rsquo;ammortizzatore, porta a un marcato affondamento dell&rsquo;avantreno nelle staccate pi&ugrave; decise con conseguente peggioramento della qualit&agrave; della decelerazione che amplifica la tendenza a bloccare del disco posteriore.  Con una potenza massima i 31,5 cv a 11.300 giri e una coppia di 2kgm a 10.800 giri, la Gilera GFR/SP fornisce prestazioni vivaci, con una punta velocistica di 171,1 km/h effettivi (raggiungibili accucciandosi bene sul serbatoio e con un lungo lancio), mentre un po&rsquo; meno brillante &egrave; l&rsquo;accelerazione da fermo che causa del limitato arco di sfruttabilit&agrave; del propulsore richiede una certa perizia: 14&rdquo;6 per coprire i 400 metri da fermo (con velocit&agrave; di uscita di 144,3 km/h) e 6&rdquo;7 per passare da 0 a 100 km/h, mentre ancor pi&ugrave; disturbata dalla citata pigrizia dell&rsquo;erogazione sotto coppia, la ripresa da 50 km/h in sesta, che non va pi&ugrave; in l&agrave; del tempo di 20&rdquo;9 sui 400 metri e di quasi 32&rdquo; per passare da 50 a 100 km/h.  La trasmissione risulta impreziosita da una frizione che pure accusando qualche incertezza sotto sforzo, risulta molto efficace nella pratica della &ldquo;sfrizionata&rdquo; per recuperare lestamente i giri, mentre il cambio, spaziato ovviamente sul lungo, risulta un po&rsquo; ruvido sotto sforzo.    Rewind, Ducati M900 Monster &#39;93: la leggenda del Mostro 

Replica delle 250 ufficiali, la piccola sportiva segn&ograve; l&#39;epilogo dell&#39;avventura tra le&nbsp;ottavo di litro per quella che al periodo era la Casa di Arcore

Rewind, Gilera GFR 125: il canto del cigno

Il coraggio di provarci. A fine anni &#39;90 Honda e Suzuki, &quot;spinte&quot; dai successi commerciali e sportivi della Ducati con la 916, misero sul piatto le loro proposte dotate di motore bicilindrico. In verit&agrave;, a differenza della sportiva della casa bolognese, la Honda VTR FireStorm e la Suzuki TL 1000 S erano proposte pi&ugrave; versatili, semicarenate, stradali ma poco pi&ugrave; che &quot;interlocutorie&quot; in attesa delle pi&ugrave; sportive versioni carenate (VTR SP e TL 1000 R). Ebbero una vita scomoda, quindi, e vennero dimenticate in fretta con l&#39;uscita delle rispettive SBK, seppur mostrassero doti di guida decisamente brillanti abbinate a cavallerie e ciclistiche valide.  L&#39;EREDIT&agrave; PESANTE DELLA SUZUKI TL 1000 S    In particolare la Suzuki, fu una moto decisamente pi&ugrave; cattiva, pi&ugrave; Supersport, se raffrontata alla rivale Honda, e mixava prestazioni di punta ad una buona versatilit&agrave; su strada ma meritevole anche di essere ben condotta tra i cordoli: dalla sua un motore V-Twin dotato di grinta e cavalleria, incastonato in una ciclistica con struttura a traliccio in tubi di alluminio. Per il motore, dotato di distribuzione mista (catena pi&ugrave; ingranaggio), venivano dichiarati 125 CV a 8500 giri/min contro i 110 CV della FireStorm. Una potenza esagerata per una bicilindrica di fine anni &#39;90. L&#39;alimentazione era affidata ad una coppia di corpi farfallati con evoluto sistema di iniezione eletronica. Particolarit&agrave; sul fronte sospensioni arrivava dal &quot;mono&quot; con smorzatore idraulico rotativo, non esente - ahinoi- di qualche criticit&agrave; con l&#39;aumentare della temperatura di esercizio del fluido. Il peso dichiarato era di 185 Kg, ma che diventavano 211 Kg con 5 litri di carburante. Non pochi.&nbsp; Altro neo arrivava dalla frenata, con il poco mordente che accusava l&#39;impianto doppio disco anteriore. Sulla scia di questa TL 1000 S arriv&ograve;, un paio di stagioni dopo, anche una versione di minore cilindrata con medesimo schema del motore e tipologia di telaio: la SV 650, una moto che ha bisogno di ben poche presentazioni.  Al banco il motore della TL 1000 S mostrava un picco massimo di 113,8 CV a 8.500 giri. Il tutto abbinato ad una curva di potenza gi&agrave; estremamente regolare a soli 3.500 giri e sostanziosa oltre i 5.000 giri. La velocit&agrave; di punta&nbsp; arrivava a sfiorare i 258 km/h effettivi (con un lancio inferiore a 1.500 metri).    Gira pagina per leggere la prova del 1997:  &nbsp;  SE NE VEDONO DI BELLE    Anche se abbastanza lontana dai 187 kg di peso dichiarati (in realt&agrave; sulla bilancia, con 5 kg di carburante, abbiamo letto poco pi&ugrave; di 211,5 kg) la TL 1000 S si lascia condurre e gestire bene quando ci si deve muovere in poco spazio. Merito della favorevole ed equilibrata distribuzione delle masse, con l&rsquo;avantreno non eccessivamente caricato, ma anche del contenuto raggio di sterzo in funzione del quale si possono effettuare agevolmente le inversioni di marcia sebbene a manubrio completamente chiuso le mani risultano piuttosto vicine al serbatoio!  Grazie alla fluida erogazione del motore gi&agrave; a un modesto numero di giri &egrave; possibile muoversi con buona disinvoltura, effettuare inserimenti in curva armonici e progressivi, seppure non fulminei, scendendo in piega progressivamente fermandosi una volta raggiunta l&rsquo;inclinazione ideale. Anche al salire delle velocit&agrave; non si &egrave; costretti a &ldquo;tirarla gi&ugrave;&rdquo; di forza per farla curvare in virt&ugrave; del corretto bilanciamento ciclistico mentre spalancando senza troppi riguardi l&rsquo;acceleratore (soprattutto nelle marce basse) le consistenti doti di potenza determinano sensibili alleggerimenti dell&rsquo;avantreno a seguito dei quali, impugnando con troppa foga i semimanubri, la precisione direzionale &egrave; influenzata da evidenti sbacchettate sino a quando non si riduce drasticamente l&rsquo;andatura. Diversamente la maxi V2 Suzuki sfodera un piacevole comportamento nelle guida, neutra e precisa in traiettoria, pur se iniziando a spingere forte conviene adeguare la taratura delle sospensioni che nella configurazione standard risultano piuttosto morbide e quindi facilmente portate a scomporre l&#39;assetto dando luogo a oscillazioni e pendolamenti di una certa entit&agrave;. Il tutto si risolve intervenendo debitamente sulle funzioni idrauliche (in estensione e compressione) del particolare in monoammortizzatore la cui estrema sensibilit&agrave; alle regolazioni permette di affrontare e digerire i tratti pi&ugrave; sconnessi tenendo sempre bene attaccata la ruota motrice a terra.    Fra l&rsquo;altro, nell&rsquo;uso in pista, non accusa pi&ugrave; quella cedevolezza nelle svolte lente e alla massima inclinazione quando si affonda con l&#39;acceleratore in uscita di curva (riscontrata all&#39;epoca del primo testa sul circuito di Homestead in America) tant&#39;&egrave; che in quella prova ci &egrave; stato pi&ugrave; difficile trovare il giusto compromesso per la taratura della forcella, in crisi nelle staccate o nei cambi rapidi di inclinazione soprattutto in corrispondenza di ondulazioni trasversali dell&rsquo;asfalto. Intervenendo sulle regolazioni si possono ottenere tangibili miglioramenti ma non conviene precaricare troppo la compressioni delle molle pena evidenti &ldquo;sparate&rdquo; in estensione. Promosse a pieni voti le coperture Metzeler di serie oltre alla fantastica solidit&agrave; in appoggio a qualsiasi inclinazione possiedono un grip tale da favorire accentuati angoli di inclinazione (solo in pista si arriva strisciare sull&#39;asfalto le pedane) in totale sicurezza, esenti dal manifestare surriscaldamenti anche nell&#39;impiego al limite.    ROAD TO MISANO: CON LA SUZUKI GSX-S1000GT, DIREZIONE MOTOGP 

Nel 1997 debuttava sul mercato una twin supersport che mostrava la grinta di una moto dedicata ai circuiti abbinata alla versatilit&agrave; di una stradale pura. 125 CV e 185 Kg i dati dichiarati per questa bicilindrica semicarenata

Rewind, Suzuki TL 1000 S: sportiva a modo suo

A fine anni &#39;90 Honda e Suzuki, &quot;spinte&quot; dai successi commerciali e sportivi della Ducati con la 916, misero sul piatto le loro proposte dotate di motore bicilindrico

Suzuki TL 1000 S: LE FOTO

        Possiamo considerare la prima met&agrave; degli anni '80 come un periodo di transizione, in cui la sportivit&agrave; su due ruote stava affrontando un cambio d'identit&agrave; e in Europa le moto italiane ed inglesi - tutte in profonda crisi - stavano lasciando terreno fertile alle nuove concorrenti giapponesi. Con l'opportunit&agrave; di stupire, Yamaha stava lanciando l'offensiva alla miglior produzione europea nel 1985, mettendo in listino la moto che ha stupito il Salone di Colonia l'anno precedente: la FZ750.&nbsp; Giapponese ma... sexy come un'italiana Il 1985 &egrave; stato un anno fondamentale nel trittico che dal 1983 al 1986 ha cambiato il modo di concepire la moto sportiva carenata. Con la GPZ 900 R gi&agrave; presentata e le Ducati Paso e Honda VFR 750 F a un passo dall'entrata sul mercato, gli occhi erano tutti puntati su Yamaha e Suzuki, che con le loro FZ750 e GSX-R 750 avevano lasciato tutti a bocca aperta. La FZ, soprattutto, aveva un fascino particolare che la metteva a met&agrave; fra una supersportiva solo pista e una stradale ad alte prestazioni. Diversa dall'attitudine "full speed" della GSX-R, la settemmezzo di Yamaha sembrava ideale anche per fare turismo e aveva delle forme sinuosissime. Il cupolino con faro rettangolare (non quadrato o tondo, una novit&agrave; per quegli anni) accompagnava la vista su una fiancata armonica e un ottimo raccordo fra la semicarena, il serbatoio e il codino, con una line che sfilava verso l'alto e le dava dinamicit&agrave; anche da ferma.  Uno stile cos&igrave; ce lo saremmo aspettato da un'italiana, non certo da una giapponese, e il risultato &egrave; stato molto apprezzato qui da noi, tanto che l'abbiamo vista pure al cinema con Carlo Verdone nel film Troppo Forte. Le scene di lui in sella e la gara con Er Murena ("se giocamo la moto"), sono un cult del cinema e della cultura pop. La prestazioni della Yamaha FZ 750 Il confronto con la GSX-R era obbligato non solo perch&egrave; uscite nello stesso periodo, ma perch&egrave; a livello prestazionale erano praticamente alla pari. La Yamaha la spuntava di pochissimo su velocit&agrave; massima (236 km/h contro 234) e sul quarto di miglio (11,1 secondi contro 11,6), ma sul giro secco in pista era la Suzuki la migliore. Il terreno dove Yamaha dominava - non solo su Suzuki ma in generale sulle concorrenti 750-900 - era la guidabilit&agrave; su strada. Il suo quadricilindrico 20 valvole era trattabilissimo, morbido e coppioso in basso ed esuberante agli alti. La ciclistica con il telaio doppia culla a travi rettangolari non era troppo rigida e permetteva di godere della corposit&agrave; del propulsore anche ad andature umane.&nbsp; Le prestazioni erano esagerate per l'epoca, e comunque molto buone se le guardiamo quasi 40 anni dopo: potenza massima 100 CV a 10.500 g/min, con una coppia di 8 kgm a 8000 g/min e un peso a secco di 209 kg. Non una piuma, ma per le dimensioni abbondanti del mezzo e per i materiali dell'epoca, era un bel risultato. Le ruote di sezione 110 all'anteriore (16") e 130 al posteriore (18") non sono paragonabili a quelle moderne, eppure le permettevano di sfiorare i 240 all'ora.  ALLA PAGINA SEGUENTE LA NOSTRA PROVA DEL 1985 &nbsp; LA PROVA DEL 1985 Evidentemente con l'evoluzione tecnica che caratterizza il mondo motociclistico, i record sono destinati ad avere breve durata. La FZ750 &egrave; stata infatti in grado di ritoccare le eccezionali prestazioni che abbiamo rilevato a suo tempo per la&nbsp; GSX-R 750 Suzuki.&nbsp; La velocit&agrave; massima raggiunta &egrave; abbondantemente superiore a 235 km orari, e soprattutto &egrave; facile da conseguire, visto che si coglie appena 1500 metri dopo la partenza. Ma non &egrave; da considerarsi un limite invalicabile visto che il poderoso allungo in fuorigiri, consente alla quadricilindrica Yamaha di sfruttare completamente i vantaggi delle scie o del vento a favore, aumentando ulteriormente la punta velocistica. Anche in accelerazione ha fornito prestazioni formidabili, anche se ci sembrano ancora pi&ugrave; esemplificativi i 21,18 secondi per coprire il km da fermo con velocit&agrave; di uscita superiore a 228 km orari. Anche la Yamaha FZ 750 appartiene a quella categoria di motociclette che a dispetto delle sempre pi&ugrave; numerose ed articolate proposte stilistiche si presenta come un veicolo ancora originale. Bassa, acquattata e decisamente sviluppata in lunghezza, &egrave; ben caratterizzata dal netto contratto fra le forme lisce ed affilate della zona superiore costituita dalla carrozzeria, con la parte inferiore dove imperano tecnica e neropaco: avantreno e retrotreno, l'impianto di scarico col groviglio dei collettori, e le personalissime linee del propulsore decorato con coperchi color oro. Tutto risulta proiettato in avanti, quasi trascinato dall'originale cupolino ben esteso trasversalmente, incorporante un largo gruppo ottico a sezione rettangolare.   Non c'&egrave; stata, per questa Yamaha, un'eccessiva ricerca della confezione del prodotto. Le maggiori attenzioni sono state dedicate al fatto tecnico ed alla meccanica, che &egrave; costruita in maniera davvero pregevole, con accoppiamenti perfetti tanto che dopo i 3500 km della nostra prova, non abbiamo riscontrato alcun trafilaggio o trasudamenti di sorta lungo i contorni di questo avanzato propulsore. Un pelo meno accurata &egrave; la costruzione del telaio con abbondanza di saldature in vista, mentre anche l'impianto di scarico non ha un rivestimento particolarmente uniforme. alcuni componenti della carrozzeria acquisiscono gioco mentre tra le altre cose non esaltanti vanno citati i supporti delle pedane posteriori del passeggero: un semplice tubo di acciaio ripiegato. inoltre va lamentata la mancanza di un qualsiasi sistema di sicurezza che segnali quando la stampella laterale &egrave; abbassata o che comunque la richiami in sede. Particolari di pregio con il quale da tempo la Yamaha equipaggia i suoi migliori veicoli, sono le protezioni che riparano i terminali di scarico dal contatto con la suola in gomma del pilota e sono fissati elasticamente alla piastra portapedane in alluminio. &nbsp;il quadricilindrico della FZ 750 &egrave; un propulsore totale, senza mezzi termini il migliore della categoria. non &egrave; Infatti dotato soltanto di una elevatissima potenza massima, ma vanta pure formidabili bassi regimi e un allungo pressoch&eacute; interminabile, per inibire il quale, bene hanno fatto i tecnici Yamaha ad impiegare un limitatore che taglia l'accensione raggiunti gli 11800 giri. La FZ fornisce accelerazioni estremamente eccitanti e tanto gratificanti per gli esibizionisti. Basti pensare che ci si produce facilmente in lunghe sgommate e, volendolo, in interminabili impennate fino alla quarta inserita. La curva di erogazione &egrave; semplicemente formidabile e l'ampissima. si pu&ograve; procedere in sesta con un filo di gas anche a meno di 1000 giri e poi spalancare di colpo l'acceleratore senza ottenere rifiuti o ammanchi: Il tiro &egrave; fluido e rotondo e s' irrobustisce notevolmente ad appena 3000 giri, tanto che se si riesce a mantenere almeno questo regime si pu&ograve; affrontare qualsiasi strada, anche in salita, come se si disponesse di un efficiente cambio automatico. la FZ750 nel corso della nostra prova non ha accusato il bench&eacute; minimo inconveniente meccanico. l'unica noia &egrave; stata di natura elettrica: un corto circuito che ha mandato in tilt il dispositivo di avviamento, con conseguente bruciatura del relativo fusibile.  Rewind, Aprilia SL1000 Falco: sportiva di gusto       

Una sportiva stradale che ha messo le basi per la rinascita del marchio Yamaha, e una delle principali protagoniste degli anni '80. Con la FZ il passo in avanti &egrave; stato importante, anche se non era una moto perfetta

Rewind, Yamaha FZ750: Troppo Forte!

Il gusto della sportivit&agrave;, il pennellare curve su una strada di montaga, nella guida &quot;d&#39;attacco&quot; come anche nei semplici viaggetti conditi da borse e passeggero. Un concetto di motociclismo oggi un po&#39; scemato sui mezzi di stampo sportivo e dotati di carenatura, ma che un tempo aveva le sue belle carte da giocare. Aprilia, forte del V2 Rotax che gi&agrave; stava ampiamente mostrando le sue doti con la sportiva RSV Mille, a fine anni &#39;90 complet&ograve; quella che al periodo era&nbsp;sua gamma maxi con l&#39;arrivo della SL 1000 Falco: una sportiva stradale, eclettica, dalle linee moderne e dotata di semimanubri che per&ograve; erano votati al piacere di guida, soprattutto su strada. Un piacere che si esplicava attraverso il citato bicilindrico, ma anche da una ciclistica affilata quanto &quot;facile&quot;, oltre ad una posizione di guida ben calibrata per non affaticare gambe e polsi, nemmeno dopo molti chilometri. Rispetto alla sportiva Mille presentava semimanubri pi&ugrave; alti di 50 mm e sella pi&ugrave; bassa di 20 mm, con pedane pi&ugrave; basse e arretrate.  Top5, usato: le Aprilia da comprare prima che costino troppo  &quot;La miglior moto stradale&quot;    L&#39;obiettivo che si poneva l&#39;allora giovane responsabile del progetto Falco, l&#39;ing. Klaus Nennevitz (gi&agrave; pap&agrave; della Pegaso Cube e in seguito della Tuono V2): &quot;Il progetto part&igrave; nel 1998 - dichiarava su InMoto l&#39;Ingegnere tedesco - e nel 1999 sono stati montati i primi prototipi definitivi che hanno girato coprendo circa 120.000 km complessivamente. Volevamo una moto che anche dopo molti mesi mostrasse nuovi aspetti, che nel tempo mostrasse nuovi particolari&quot;.&nbsp;  &quot;La base di partenza fu la RSV - continua - ed in questo caso, con la SL 1000 Falco, abbiamo cercato di affinare il motore, per avere una erogazione pi&ugrave; dolce, ma senza perdere grinta. Volevamo una moto che offrisse tanta sicurezza, in simbiosi con il comfort. Perch&egrave;? Pi&ugrave; si sta comodi pi&ugrave; &egrave; facile la guida&quot;.  E&nbsp;la Falco si mostr&ograve;&nbsp;poi&nbsp;come una &quot;stradalona&quot; con i fiocchi,&nbsp;grintosa, in grado di regalare tanto gusto e, seppure al periodo non sfond&ograve; come modello,&nbsp;ancora oggi ha molti estimatori che ne apprezzano l&#39;elevata facilit&agrave; di guida con il giusto pizzico di sportivit&agrave;. Elementi&nbsp;che ne facevano (e fanno) davvero una &quot;tuttofare&quot;.  I NUMERI DELLA FALCO    Sul piano delle prestazioni pure la Aprilia SL1000 Falco si difendeva egregiamente, anche grazie al suo V2 di 60&deg; e dotato di 118 CV dichiarati dalla Casa veneta al periodo, abbinato ad una ciclistica che sfruttava un doppio trave in alluminio e magnesio denominato &quot;Double Twin Beam&quot; per il design particolare (&quot;voluto cos&igrave; per l&#39;estetica, ma anche per ridurre il numero di saldature, quindi le torsioni a cui poteva essere sottoposto in fase di costruzione&quot; la parole di Nennevitz) e sospensioni regolabili.&nbsp;Il tutto con un peso di 190 Kg a secco.  Ben profilata aerodinamicamente, non faticava a raggiungere in velocit&agrave; di punta i 258 km/h effettivi (superando in qualche caso anche i 260 km/h) cos&igrave; come, pur faticando moltissimo a tenere attaccata all&rsquo;asfalto la ruota anteriore, in accelerazione ai 400 e 1000 metri (con 10&rsquo;&rsquo;8 e 20&rsquo;&rsquo;1) spiccava tempi spuntati dalla pi&ugrave; sportiva Aprilia RSV mille. Rispetto a quest&rsquo;ultima, le cose erano addirittura meglio in ripresa visto che la SL 1000 rifilava alla sorella sportiva ben 1&rsquo;&rsquo; ai 400 metri (13&rsquo;&rsquo;2 contro 14&rsquo;&rsquo;2) e ben di pi&ugrave; al chilometro, con 23&rsquo;&rsquo;8 in luogo dei 25&rsquo;&rsquo;2. Tutto questo con un tangibile contenimento dei consumi riscontrati soprattutto nelle percorrenze dell&rsquo;economy (da 20,6 a 22,1 km/litro) e ai 90 km/h costanti dove la minore richiesta di carburante viene sottolineata dai 21,6 km/litro in luogo dei 19,1 km/litro, oltre i quali non si andava con la Mille.  Rewind, Aprilia RSV Mille: la scommessa di Beggio  Gira pagina per leggere la nostra prova su InMoto del 1999:  &nbsp;  Gusto Eclettico    Partita alla grande con la maxisportiva RSV mille e successivamente con l&rsquo;analoga versione SP, Aprilia intende ora, con la pi&ugrave; tranquilla SL 1000 Falco, soddisfare le aspettative di quella clientela alla ricerca di un mezzo polivalente e non esasperato nelle prestazioni ma in grado di assicurare grande divertimento nella guida. In qualit&agrave; di moto superlight, la protagonista di questa prova non ha grosse difficolt&agrave; a destreggiarsi agevolmente nel misto, a &quot;digerire&quot; brillantemente i cambi di direzione e inclinazione con grande naturalezza nonch&eacute; ad inserirsi in curva in modo molto spontaneo.  Basta solo indirizzarla per sentirla scendere gradualmente fino all&rsquo;inclinazione desiderata, discretamente rigorosa nel chiudere la curva e nel mantenere la traiettoria impostata, bene appoggiata sulle generose coperture Metzeler, ME Z di primo equipaggiamento le quali oltre a fornire il necessario grip consentono alla maxi bicilindrica veneta di sfruttare sino in fondo l&rsquo;ottima luce a terra di cui dispone. Cos&igrave; sui percorsi misti e sulle strade di montagna il divertimento nella guida &egrave; assicurato ma allo stesso modo la SL 1000 riesce a districarsi agevolmente in citt&agrave; e nel traffico, supportata dalle buone caratteristiche di elasticit&agrave; del motore e dal contenuto raggio di sterzata utile quando capita di manovrare in spazi angusti. Solo in pista, affondando senza riguardo sull&rsquo;acceleratore, la semplicit&agrave; costruttiva dell&rsquo;ammortizzatore (regolabile solo nel precarico molla e nell&rsquo;idraulica in estensione) pu&ograve; dare luogo a qualche scompenso nell&rsquo;assetto tant&rsquo;&egrave; che spalancando repentinamente la manopola del gas dell&rsquo;avantreno inizia inevitabilmente a &quot;galleggiare&quot; ed allargare verso l&rsquo;esterno al punto da compromettere la precisione di guida.  Diversamente, in condizioni ottimali sul veloce, la Falco sfodera il necessario rigore e tanta solidit&agrave; nello sterzo. In quanto a sicurezza, il potente impianto frenante a triplo disco di generose dimensioni si lascia gestire bene possedendo la necessaria prontezza, modulabilit&agrave; e progressione di intervento da parte del comando a leva. Al pari dell&rsquo;unit&agrave; posteriore, la coppia di dischi anteriori arriva a bloccare solo per espressa volont&agrave; del pilota mentre fra le peculiarit&agrave; di spicco dell&rsquo;impianto figura l&rsquo;assoluta estraneit&agrave; ai fenomeni di fading o cedimenti del comando a leva che possono influenzare negativamente gli spazi tant&rsquo;&egrave; che sotto questo profilo dai risultati ottenuti nelle nostre prove, sia ai 60 km/h che ai 100 km/h, l&rsquo;SL Falco si &egrave; comportata meglio della ben pi&ugrave; sportiveggiante sorella Aprilia RSV mille.  LA FALCO AL BANCO    Ma le sorprese non finiscono qua perch&eacute;, ad esempio, se passiamo ad analizzare le performance offerte dal propulsore si scopre sorprendentemente come la &quot;tranquilla&quot; turistico-sportiva SL 1000 non sia poi cos&igrave; distante in fatto di potenza massima: 110,49 CV a 9250 giri disponibili alla ruota se raffrontati ai 112,28 CV a 9800 giri rilevati dal nostro banco prova per la RSV mille. Quasi non ci si accorge di avere a disposizione, per una moto di questo tipo, simili valori di potenza massima naturalmente complice la lunga rapportatura che tende a stemperare effettive potenzialit&agrave; disponibili. Cos&igrave; a fronte della curva d&rsquo;erogazione abbastanza &quot;morbida&quot; e stemperata, l&rsquo;unit&agrave; che equipaggia la Falco riesce a riprendere dalla sesta senza troppi strappi a partire dai 3000 giri per poi iniziare a spingere bene dai 5000-6000 giri almeno sino all&rsquo;accendersi del led rosso (sui 10.500 giri) sul contagiri che inizia a lampeggiare circa 500 giri prima dell&rsquo;intervento del limitatore.  Rewind, Yamaha YZF-R6 &#39;99: la media senza mezze misure  &nbsp; 

Una sportiva stradale con i fiocchi con divertimento nella guida assicurato, soprattutto sui percorsi misti. Il peso contenuto ne favoriva la maneggevolezza&nbsp;

Rewind, Aprilia SL 1000 Falco: sportiva di gusto

Sportiva dalle linee moderne e dotata di semimanubri che però erano votati al piacere di guida, soprattutto su strada. Un piacere che si esplicava attraverso il Rotax bicilindrico, ma anche da una ciclistica affilata quanto "facile", oltre ad una posizione di guida ben calibrata per non affaticare gambe e polsi, nemmeno dopo molti chilometri

Aprilia SL 1000 Falco: sportiva stradale eclettica

Era il 1987 quando Suzuki present&ograve; al mondo la sua monumentale DR 750 Big. Una enduro che dal punto di vista del design e della motorizzazione andava a scontrarsi contro schemi, all&#39;epoca, ben radicati. Era convinzione che 600-650 cc rappresentassero il tetto, ottimale ma invalicabile, nell&#39;equilibrio fra bilanciamento e rendimento per un motore monocilindrico quattro tempi, non stupisce dunque che l&#39;accoglianza dietro questo progetto fu di un certo scetticismo sulle prime. Ma ben presto quella moto entr&ograve; nel cuore di tanti appassionati. A Suzuki il merito di aver prodotto un motore da record, ma non solo: linea spigolosa e personalissima (con protagonista l&#39;iconico &quot;becco&quot;) e buone prestazioni e comfort su strada, la DR Big 750 era s&igrave; una moto da fuoristrada, ma che sfoggiava bagliori da tourer.    SUZUKI DR 750 BIG: UN PO&#39; DI TECNICA  Per la &quot;mamma&quot; della attuale V-Strom 1050, Suzuki mise in campo quello che &egrave; ancora oggi il motore monocilindrico da record: i suoi 727 cc (in seguito 779) garantivano alla &quot;Desert Express&quot; (come venne soprannominata) una cavalleria di 45 CV (rilevati) abbinati ad una coppia massima di 55 Nm a 5.600 giri/min. L&#39;alimentazione era afidata ad un doppio carburatore Mikuni da 33 mm di diametro, mentre il raffreddamento contava sul famoso sistema aria/olio SACS. Il peso era di 160 Kg a secco (dichiarati) che si traducevano in 190 Kg con il pieno (rilevati).  L&#39;alesaggio misurava 105 mm mentre la corsa 84mm: questo schema consentiva di smorzare in parte le pulsazioni che arrivavano di quel grosso pistone, lavoro che svolgevano concretamente due alberi di equilibratura mossi da catena. Un lavoro necessario considerati anche i 18,2 m/s di velocit&agrave; lineare del pistone al regime di potenza massima. Cos&igrave; configurato il motore raggiungeva i 6.500 giri e spingeva la Big ai 170 Km/h.  L&#39;altra grande peculiarit&agrave; della DR 750 era il design, indubbiamente ardito per l&#39;epoca, ma subito apprezzato e dal quale da quel periodo in avanti tante case concorrenti trassero spunto. Grande protagonista il becco frontale, ma anche una certa &quot;sproporzione&quot; di volumi tra parte anteriore a posteriore. Un layout estetico che, a conti fatti, si rivel&ograve; riuscitissimo.&nbsp; Inutile dire che arriv&ograve; anche l&#39;allestimento per la Parigi - Dakar (DR-Z), al periodo al massimo della sua epopea: dotata di motore da 779 cc e 66 CV, Ben figur&ograve; in gara con Gaston Rahier (nono nel 1988) ma anche con piloti privati come l&#39;italiano Beppe Gualini.    Gira pagina per leggere la nostra prova su InMoto del 1988:  &nbsp;  NELLA NOSTRA SU STRADA PROVA SU MS DEL 1988 SCRIVEVAMO:    Fa una certa impressione di trovarsi fra le gambe una massa imponente come il &nbsp;grosso serbatoio della Suzuki DR Big. Si capisce subito di trovarsi alle prese con una enduro speciale e surdimensionata, tanto che non si avverte quasi la notevole larghezza del manubrio e la sella sembra addirittura bassa da terra.  L&#39;assetto in sella &egrave; piacevole anche se poco specializzato in senso fuoristradistico grazie al confortevole dislivello fra piano manubrio e piano sella. La DR 750 Big &egrave; fra le moto pi&ugrave; confortevoli. Per quanto generosamente dimensionata e risulti pesante da manovrare da fermi, si scopre presto che in movimento diventa la classica piuma piacevole e tutt&#39;altro che impegnativa da condurre. Inoltre anche la protezione aerodinamica &egrave; accettabile. L&#39;unico problema sembra arrivare dalle vibrazioni, avvertibili soprattutto dai 5500 giri in su, con maggiore intensit&agrave; sulle pedane stranamente con maggiore accento su quella di sinistra.  Per quel che riguarda il motore monocilindrico tutte le remore che nutrivamo sulla fluidit&agrave; di funzionamento sono sparite; tanto che se avessimo provato questa moto senza conoscerne la cilindrata non avremmo trovato eccessive differenza rispetto alle 600-650, a parte la maggior robustezza del tiro.   Si tratta di un motore decisamente riuscito. E&#39; fluido e sostanzioso ai medio-bassi, ma con un apprezzabile temperamento in alto. I vantaggi dalla elevata cilindrata unitaria vengono pagati con l&#39;elevato tasso di vibrazioni e con una pratica di avviamento un po&#39; laboriosa dovuta alla implicazione necessaria a vincere la resistenza offerta dal grosso pistone. Da un punto di vista dell&#39;erogazione, per quanto un po&#39; recalcitrante ai bassi regimi, successivamente il motore si regolarizza e si instaura una ripresa fluida a partire dal 2500 giri; dai 3500 giri il tiro si fa veramente robusto e in grado di vincere parecchie avversarie anche bicilindriche, mentre il maggiore impulso di coppia viene fuori superata quota 5000-5500 giri con un allungo che non ci saremmo davvero mai aspettati da un monocilindrico.  Rewind, Suzuki GSX-R 1000 K5: la primadonna di Hamamatsu 

Linea spigolosa e personale che fece tendenza, meccanica che sprizzava forza&nbsp;e quel &quot;mono&quot; da 750 cc&nbsp;protagonista di un progetto che ha fatto storia

Rewind, Suzuki DR 750 Big: la grande scommessa

Emozioni da pista. Dopo aver lasciato tutti a bocca aperta&nbsp;nel 1997 con l&#39;arrivo della YZF-R1, ai saloni autunnali del 1998 Yamaha presenta la YZF-R6. Una 600&nbsp;supersportiva che, come&nbsp;la sorella maggiore tra le 1000, scombussol&ograve;&nbsp;il segmento&nbsp;di appartenenza. Una moto senza compromesssi, nata per offrire il meglio in pista ed&nbsp;che&nbsp;anche su strada&nbsp;garantiva badilate di divertimento, seppure meno fruibile di concorrenti come Honda CBR 600 F o Kawasaki ZX-6R.  Moto che dalla sua proponeva tante novit&agrave; e che, di l&igrave; a poco tempo, divenne riferimento per una nuova generazione di medie sportive e che, di fatto e dati i numeri di vendita sul mercato (diede il&nbsp;&quot;La&quot; ad un vero&nbsp;boom di immatricolazioni per le medie sportive), diede vita poi al campionato Mondiale SS600 nato proprio per consentire, come avvenne per la SBK, ai numerosi appassionati di vedere in pista quelli&nbsp;che erano mezzi da corsa regolarmente targati.    YAMAHA YZF-R6: CHE MOTORE!  La YZF-R6 del 1999 offriva spunti notevolissimi. Dalle forme, aggressive e taglienti, all&#39;inedito telaio Deltabox II in alluminio con parti fuse unite a parti stampate, al motore con cilindri in blocco con il basamento e cambio Tri-Axis (ad alberi sovrapposti) era accreditato di una potenza di 101 CV alla ruota (120 CV dichiarati) ad un regime stratosferico per il periodo: 13.000 giri/min ma con allungo fino ai 15.500!&nbsp;    La moto era compattissima, con dimensioni quasi da 250 GP e questo grazie al grande lavoro fatto per contenere gli ingombri longitudinali che consegnavano un interasse contenuto in 1.380 mm. Il peso a secco dichiarato era di 169 Kg che diventavano 189 in ordine di marcia.  Gira pagina per leggere&nbsp;la nostra prova in sella alla Yamaha YZF-R6 del 1999:  &nbsp;  EMOZIONI A TUTTA MANETTA  Si rimane letteralmente stregati dalla R6 per l&#39;immediata impressione di leggerezza, di facilit&agrave; ed in virt&ugrave; dell&#39;ottimo feeling che si riesce ad instaurare anche dopo aver percorso pochi metri. Nel confronto con la sorella maggiore, la R1, vince senza dubbio in virt&ugrave; del migliore equilibrio meccanico/ ciclistico, mai cos&igrave; &ldquo;impiccata&rdquo; o messa alla frusta dalla minore potenza del motore, dall&#39;erogazione meno brutale. Andando a spasso con l&rsquo;R6 sembra proprio di avere tra le mani un bel giocattolino, maneggevole e pronto ai voleri del pilota, mai troppo &ldquo;ballerina&rdquo; di avantreno oppure sullo sconnesso se non nelle marce basse quando capita di assestare violente manate sul comando dell&rsquo;acceleratore che determinano inevitabili alleggerimenti dello sterzo.    Quest&#39;ultimo rimane sempre ben piantato sull&rsquo;asfalto, come su di un binario, pure alla massima velocit&agrave; e sui veloci curvoni autostradali, ma &egrave; dall&#39;impiego in pista, l&#39;uso per cui &egrave; stata principalmente concepita, che si traggono le massime soddisfazioni sotto il profilo dinamico sebbene per rendere al meglio richieda un particolare stile di guida. Primo fra tutti spostare, caricare quanto pi&ugrave; si pu&ograve; il peso del corpo in avanti con le braccia larghe e per quanto possibile evitare in quella guida spigolosa, scoordinata che finisce solo per creare scompensi nell&#39;assetto che penalizzano le ottime doti di inserimento, la velocit&agrave; di percorrenza ed in uscita di curva.  Anche nella guida al limite raramente l&#39;assetto si scompone se non sullo sconnesso (dove tutt&#39;al pi&ugrave; possono verificarsi lievi ondeggiamenti innescati dalla consistente dose di potenza che si scarica sulla ruota posteriore in accelerazione) ma riesce a mantenere discretamente bene la traiettoria soprattutto se si tiene bene in tiro con il comando del gas. A fare il resto ci pensano l&#39;esuberante temperamento del motore da 10.000 giri in su, il discreto grip fornito dalle Bridgestone BT56 di primo equipaggiamento propense ad assicurare il necessario appoggio alle massime inclinazioni in virt&ugrave; delle esagerate possibilit&agrave; di piega prima di toccare l&#39;asfalto anche solo con i piolini posti a corredo delle pedane. Solo sui fondi infidi e con temperature ambientali rigide non riescono a trasmettere troppo feeling impedendo di aprire con decisione in uscita di curva, anche se le eventuali perdite di aderenza del posteriore avvengono in modo assolutamente graduale.  Sinceramente ci aspettavamo tutt&#39;altre performance dall&#39;impianto frenante, instancabile e potente, ma troppo brusco nella prima fase al punto che nelle pinzate energiche l&#39;avantreno affonda vistosamente quasi a voler sollevare da terra la ruota motrice.  CHE MOTORE!  Unitamente alle doti di ciclistica, la R6 pu&ograve; vantare anche un elevatissimo rendimento del propulsore, vero punto di riferimento della categoria, che all&#39;occorrenza sa essere comunque civile. Al minimo quasi non lo si sente funzionare, mentre alza lire dei giri offre una tonalit&agrave; di scarico corposa, secca e metallica come quella di un due tempi quando si viaggia con l&rsquo;ago del contagiri vicino alla zona rossa. Un gran bel &ldquo;peperino&rdquo; che non disdegna di funzionare regolarmente gi&agrave; sui 1.000 giri in sesta (!), di riprendere in modo fluido dai 4-5.000 giri e corposo superati i 6.000 giri.    Ma dopo gli 8.000 giri che si instaura una gustosa progressione mentre per l&#39;uso in pista il range di utilizzo ideale del quadricilindrico Yamaha si estende dai 10.000 giri al 14.000-14.500 giri con buone doti di allungo e la possibilit&agrave; di spingersi (senza per&ograve; reali vantaggi) oltre 15.000 giri all&#39;intervento del limitatore.  LA YZF-R6 ALLA PROVA DEI NUMERI  Dalla consueta prova al banco ci &egrave; stato possibile rilevare il pi&ugrave; alto valore di potenza massima per la categoria delle 600 supersport stradali: ben 101,05 CV a 13.000 giri &ldquo;veri&rdquo; alla ruota, ma &egrave; interessante notare l&#39;estrema regolarit&agrave; della curva di potenza (a parte qualche lieve instabilit&agrave; fra i 3.500 e i 4.000 giri) con un balzo netto in prossimit&agrave; dei 9.000 giri dove si passa dai quasi 61 CV ad oltre 68,9 CV mentre dai 12.700 al 13.300 giri si &egrave; sempre oltre i 100 CV effettivi.    Un vero portento: non ci si deve stupire pi&ugrave; di tanto se il nuovo quattro cilindri di Iwata si comporta davvero bene sotto il profilo delle prestazioni. La media dei vari passaggi in velocit&agrave; di punta ci ha fatto rilevare quasi 261 km/h effettivi sempre facilmente raggiungibili (in poco pi&ugrave; di 1300 metri) con il contagiri &ldquo;inchiodato&rdquo; sui 14.500 giri. Cosa dire poi dei riscontri cronometrici ottenuti in accelerazione dove, solo per le difficolt&agrave; riscontrate nel tenere attaccata all&#39;asfalto la ruota anteriore, non siamo riusciti a scendere sotto i 3&rdquo; nella variazione da 0 a 100 km/h mentre ai 400 e 1000 metri la R6 si scatena fermando il cronometro rispettivamente sui 10&rdquo;74 e 20&rdquo; netti. Tutto sommato non si difende nemmeno male in ripresa anche se la mancanza di sostanza nell&#39;erogazione prima dei 6.000 giri finisce per condizionare i rilievi cronometrici nella classica prova dai 50 km/h in sesta. Comunque i 14&rdquo;1 ed i 24&rdquo;6 richiesti per transitare ai 400 e 1000 metri le consentono di avere la meglio sulla illustre rivale (la nuovissima Honda CBR 600 F in versione &rsquo;99).  Yamaha 750 Genesis: razza da corsa 

Arrivata sul mercato alla fine degli anni &#39;90, la 600&nbsp;di Iwata, come la R1 tra le maxi, port&ograve; scompiglio nella categoria delle Supersport. Grazie alla affilata ciclistica e&nbsp;al&nbsp;motore rabbioso agli alti regimi

Rewind, Yamaha YZF-R6 &#39;99: la media senza mezze misure

Emozioni da pista. Dopo aver lasciato tutti a bocca a parte nel 1997 con l&#39;arrivo della YZF-R1, ai saloni autunnali del 1998 Yamaha presenta la YZF-R6. Una media supersportiva che, come fu per la sorella da 1 litro di cilindrata, scombussolo il settore - in questo caso - delle medie cilindrate. Una moto senza compromessi, nata per offrire il meglio in pista ma che, anche su strada, riusciva a farsi apprezzare.

Rewind, Yamaha YZF-R6 '99 FOTO

Guzzi da corsa. Era il 2002 quando venne presentato il progetto di una moto, realizzata da un progetto in origine di Ghezzi &amp; Brian, che lasci&ograve; in tanti a bocca a perta. La Moto Guzzi MGS-01 Corsa quando arriv&ograve;, poi, nel 2004,&nbsp;fu encomiabile connubio tra il tranquillo bicilindrico trasversale &quot;Big Bore&quot; (rivisto partendo dalla preparazione del mitico Dr. John) ed una ciclistica da corsa adornata da una semicarena da sportiva purosangue, caratterizzata dalla grossa presa d&#39;aria posizionata sul frontale.  MOTO GUZZI MGS-01: BELLA FORTE  Era bella, poco da dire, tanto da riuscire a mettere insieme i gusti degli appassionati di moto supersportive con il palato esigente dei guzzisti della prima ora. Il motore era un 1.225 cm3 di derivazione Centauro (abbinato a trasmissione a 6 marce V 11), con testata 8 valvole e doppio albero a cammes in testa ed accreditato di 122 CV a 8.000 giri/min per una coppia massima di 11,5 kgm a 6.400 giri/min. Il peso a vuoto era di 192 kg.    Non valori eclatanti, ma dopo l&#39;opera di preparazione fatta per correre sul tracciato di Daytona nella BOT (Battle of Twins) raggiunse la ragguardevole soglia dei 165 CV. Con questa moto la Casa di Mandello sbanc&ograve; alla Bike Week nella categoria riservata alle bicilindriche, aggiudicandosi 2 gare nel 2006 (e 2007 con motore 1400), e giungendo poi seconda nella &quot;Sound of Thunder&quot;, categoria riservata alle SBK. Il pilota era Gianfranco Guareschi. Al periodo questa MGS-01 Corsa costava circa 20.000 euro e veniva venduta su richiesta. Ad una prima fase in cui si pens&ograve; ad una produzione sul larga scala di una versione omologata, segu&igrave; una piccola serie disponibile su ordinazione. Pochi furono gli esemplari venduti, per una moto che avrebbe meritato sorte (commerciale) decisamente migliore.&nbsp;  Gira pagina per leggere le nostre impressioni in pista su In Moto nel 2004:  Rewind, Aprilia RS 250: piccolo diavolo  &nbsp;  &nbsp;  &nbsp;  FEELING IMPENNATE E SODDISFAZIONE  Se vista dal vivo &egrave; veramente esagerata, ancora pi&ugrave; emozionante ed esaltante &egrave; il rombo, ora cupo e a volte veramente eccitante, emesso dal singolo silenziatore di scarico. I semimanubri bassi e angolati, la sella alta ma ben raccordata ai pronunciati incavi del serbatoio portano a viaggiare con il busto sensibilmente proteso in avanti, ma la corretta dislocazione delle pedane oltre al positivo inserimento delle ginocchia non determina particolari stress per gli arti inferiori. Sin dai primi chilometri si riesce a stabilire il feeling giusto per il tracciato di Adria, zeppo di curve e varianti. La MSG Corsa non ci ha impressionato sul fronte della maneggevolezza e della rapidit&agrave; nei cambi di inclinazione dove &egrave; richiesto un discreto lavoro di braccia, ma per il buon equilibrio globale. Bene assettata sulle sospensioni, dalla taratura di base non troppo rigida, risponde con precisione ai comandi e gode di un armonico comportamento dell&#39;avantreno preciso, stabile sul veloce e buon &ldquo;timone&rdquo; negli inserimenti. Guidandola in scioltezza, senza troppa convinzione, la si pu&ograve; sentire allargare mentre se tenuta in&hellip; tiro con l&rsquo;acceleratore copia diligentemente la traiettoria impostata senza sbavature.    Ottimizzando la taratura al retrotreno (soprattutto variando l&rsquo;altezza e le regolazioni idrauliche del mono) si possono senz&#39;altro ottenere migliori risultati. Comunque la MSG non &egrave; certo la moto da impiegare di forza: &egrave; una splendida sportiva che gradisce la guida pulita, e va gestita senza spigolare oppure evitando inutili forzature in staccata. Meglio impiegarla come si conviene per le altre &quot;supertwin&quot; dosando l&#39;acceleratore e facendo affidamento sulle ottime caratteristiche di coppia, ben supportati dalla notevolissima tenuta e solidit&agrave; in appoggio fornite dalle eccellenti coperture Pirelli Supercorsa.  La MSG-01 &egrave; anche la prima Moto Guzzi che impenna in uscita di curva ruotando semplicemente l&rsquo;acceleratore (!) perch&eacute; il corposo maxi propulsore bicilindrico a V trasversale grazie al kit di trasformazione sfodera un temperamento davvero grintoso ai bassi regimi. In virt&ugrave; del buon lavoro svolto dal sistema di iniezione e dalla distribuzione ad otto valvole tira gi&agrave; bene dai 3000 giri e (a parte una leggera incertezza intorno ai 4500-5000 giri) sfodera una notevole grinta dai 6000 giri su, prontissimo nei transitori e corroborato da un&rsquo;inesauribile spinta che porta a valicare gli 8500 giri indicati per arrivare senza apparenti difficolt&agrave; alla soglia di intervento del limitatore.    La frizione rinforzata svolge diligentemente il proprio compito mentre ci sono ampi margini di miglioramento per quanto riguarda il cambio, non sempre preciso e contenuto negli innesti tirando allo spasimo, considerando anche la mancanza per ora di un appropriato parastrappi a corredo del cardano. Quest&#39;ultimo si sente&hellip; il giusto, cos&igrave; come ci sono sembrati all&#39;altezza della situazione, per potenza e progressione di intervento, i freni, con particolare riferimento alla coppia di dischi anteriori.  Laverda 750 S Formula: un vero peccato! 

Nata nel 2004 da un progetto di Ghezzi &amp; Brian afascin&ograve; il mondo con quel suo bicilindrico trasversale incastonato in una ciclistica da corsa. Una moto con la quale Gianfranco Guareschi si impose nella BOT del 2006 e 2007

Rewind, Moto Guzzi MGS- 01 Corsa: l&#39;aquila che vinse a Daytona

        La Tuono del 2002 &egrave;, tecnicamente, la versione naked della RSV, ma nella pratica quelli di Aprilia hanno realizzato qualcosa di molto diverso: hanno preso il concetto di streetfighter tanto caro ai motociclisti nordeuropei e l'hanno convertito in prodotto di serie, realizzando un'icona del motociclismo e una dinastia di motociclette che nel 2022 ha compiuto 20 anni e non accenna a fermarsi.&nbsp; Streetfighter nell'anima  Prima di lei l'idea di "streetfighter" era vincolata alle sole special, realizzate prendendo moto supersportive e privandole di carene e semimanubri, con un bel manubrione da cross per farle rimbalzare agilmente fra le curve. La Tuono ha preso alla lettera questo concetto, quindi via le carene e il cupolino avvolgente, qualche particolare per coprire i cavi e le parti esposte della meccanica, e un cupolino pi&ugrave; stretto per consentire il movimento del nuovo manubrione larghissimo, senza nemmeno cambiare il faro anteriore.&nbsp; Guardare la Tuono, specialmente in profilo o tre-quarti, era come guardare una RSV Mille a cui mancava "qualcosa", o rozzamente scarenata in qualche garage della periferia di Lipsia. La prima versione scelta per il lancio del 2002, la Tuono R Limited Edition in tiratura limitata da 200 esemplari (ma in primo momento furono 105, poi raddoppiati per la richiesta di esportazione) faceva largo uso di materiali pregiati: i fianchetti erano in kevlar e carbonio, codone e cupolino interamente in fibra di carbonio, e - altra raffinatezza - la sella era rivestita da un tessuto a base kevlar. &nbsp;Il manubrio era in alluminio anodizzato e fissato alla piastra superiore di sterzo tramite riser ricavati dal pieno e in ergal. Lo scarico era decisamente voluminoso nel silenziatore in titanio. A questa segu&igrave; la prima in catena di montaggio ad ampia tiratura denominata "Fighter" e con un prezzo decisamente inferiore, che abbiamo provato nel 2002.  Gira pagina per leggere la prova su InMoto del 2002: &nbsp; Meno raffinata, ma sempre cattiva  Diversamente dalla tuono R, la Fighter ha un aspetto meno prezioso, tecnologico, e pure la moto nella sostanza &egrave; quella, con particolari meno costosi e raffinati ha un aspetto pi&ugrave; elegante pur conservando una certa aggressivit&agrave;. Merito delle nuove livree, rossa o nera monocromatiche, e della piacevole colorazione in bronzo riservata al telaio e al forcellone mentre in luogo dei numerosi particolari in Kevlar carbonio troviamo materiali meno costosi. gi&agrave;, oltre a rendere meno appariscente sotto il profilo estetico, i tecnici di Noale hanno lavorato sodo per cercare di riportare il prezzo di acquisto entro valori accettabili senza impoverirla troppo nella sostanza. Un obiettivo importante dal punto di vista della commercializzazione su vasta scala, ottenuto passando all'impiego di Forcella showa e mono ammortizzatore Sachs, meno raffinate e costose delle Ohlins, oppure sostituendo gli splendidi cerchi in lega leggera forgiati della OZ con pi&ugrave; tradizionali unit&agrave; razze cave. L'impianto frenante Brembo serie oro, di qualit&agrave; notevole, &egrave; stato semplificato mediante l'impiego delle tradizionali pinze a due pastiglie. Il raffinato motore bicilindrico a V di 60 gradi ad iniezione elettronica ha perso solo qualche cavallo in fatto di potenza massima, a favore della migliore qualit&agrave; dell'erogazione ai regimi medio-bassi lavorando di fino sulla mappatura della eprom e modificando i condotti di aspirazione. L'attuale configurazione del maxi bicilindrico che equipaggia la Tuono Fighter, lo rende compatibile con la normativa antinquinamento Euro 1 ma, per certi paesi, &egrave; disponibile la versione catalizzata in grado di rientrare nella Futura normativa Euro 2.  Sin dalla prima occhiata, la Fighter veste adeguatamente i panni della moderna naked senza eccessi o forzature, con in debito risalto il bel telaio verniciato in bronzo che si stacca dalla livrea rossa o nera delle limitate porzioni di carrozzeria. Il corposo motore bicilindrico a V, sembra fatto apposta per essere lasciato in bella vista chiuso inferiormente dal Puntale aerodinamico &egrave; completato dal generoso silenziatore di scarico che sale dalla parte destra. La parte indiscutibilmente pi&ugrave; professionale &egrave; l'avantreno, a corredo del quale ci sono la forcella Showa a steli rovesciati interamente regolabile e il generoso impianto frenante Brembo serie oro con i grossi dischi forati da 320. Non solo perch&eacute;, in un simile contesto, non stonano i due originali convogliatori d'aria mentre, bene integrato al resto, &egrave; anche il rastremato cupolino che, assieme al gruppo ottico anteriore, contribuiscono a rilevare il familiare look delle sportivissime Aprilia RSV. Dove non c'&egrave; nessuna analogia con quest'ultime e nella definizione del manubrio in ergal a sezione variabile, rialzato attraverso l'Impiego di eleganti riser in lega leggera, dall'estremit&agrave; piuttosto aperte. La cura nei dettagli prosegue quando ci si sofferma ad analizzare la realizzazione del Puntale, nel quale &egrave; inserito il radiatore del circuito di lubrificazione, la presenza degli utili, in caso di una scivolata, tamponi in nylon ben in vista nella parte centrale, nel posteriore si distinguono i due piccoli gruppi ottici tondi che sbucano dal codone nella cui parte terminale &egrave; ricavato un discreto vano portaoggetti. Come va su strada? Pur avendo messo su qualche chilo di peso &egrave; perso le raffinatissime sospensioni il comportamento dinamico della originale Maxi Naked Aprilia e di quelli da leccarsi i baffi. in particolare ci sembra bene organizzata la distribuzione dei pesi Considerando la sincerit&agrave; con cui l'avantreno, grazie anche ai favorevoli bracci di Leva offerti dal manubrio, risponde ai comandi del pilota in modo equilibrato, solo spalancando di colpo l'acceleratore si finisce inevitabilmente, aggrappandosi alle estremit&agrave; del manubrio, per alleggerire l'avantreno, ma in ogni circostanza il buon lavoro svolto dell'ammortizzatore di sterzo evita pericolose oscillazioni o sbacchettamento dal anteriore. pur senza essere un fulmine in fatto di maneggevolezza gli inserimenti in curva, i cambi di direzione sono sempre eseguiti in modo armonico, la discesa in piega progressiva &egrave; neutrale anche quando nelle svolte pi&ugrave; strette si fatica a tenere su di giri il motore. Andandoci a spasso, alle andature da parata o nella guida in surplace &egrave; richiesto davvero limitato&nbsp; impegno, che non mancher&agrave; di agevolare l'approccio da parte dei piloti meno esperti, cos&igrave; come a salire della velocit&agrave; la Fighter si mantiene essenzialmente neutra in ogni condizione. accetta di buon grado gli inserimenti in curva e si mantiene rigorosa nella traiettoria impostata a patto di non esagerare con l'acceleratore in uscita di curva perch&eacute;, in questa particolare condizione, la precisione di guida e si ridimensiona pu&ograve; capitare di sentirla allargare verso l'esterno. Una condizione maggiormente avvertibile con installati i pneumatici Metzeler Sportec M1 di primo equipaggiamento grazie ai quali, per&ograve;, si possono raggiungere le varie inclinazioni in piena sicurezza, grazie alla corposa sezione del pneumatico da 190, cos&igrave; come sentire sempre l'avantreno bello solido pure sulla accentuate sconnessioni dell'asfalto, in presenza di Fondi infidi.&nbsp; Rewind Aprilia RSV Mille: la scommessa di Beggio       

Non &egrave; un caso se oggi il nome Tuono sia una dinastia in ottimo stato di salute conosciuta da tutti gli appassionati. Una pietra miliare che ha iniziato i suoi passi 20 anni fa

Rewind, Aprilia Tuono Fighter 2002: la prima Streetfighter di serie!

        Massimo Tamburini &egrave; stato un artista delle due ruote, una matita leggera e affilata capace di disegnare linee che sono uscite fuori dalla contemporaneit&agrave; e che hanno trovato posto nell'eternit&agrave;. Fra le sue creazioni pi&ugrave; riuscite c'&egrave; la moto che ha fatto rinascere MV Agusta, la F4 (qui il nostro Rewind), e la sua sorella scarenata Brutale che &egrave; la protagonista del nostro Rewind. Un design che ha rubato i cuori  La prima Brutale in tiratura limitata Serie Oro &egrave; stata presentata come un gioiello prezioso, con particolari davvero ricercati e in materiali pregiati e una linea che ha lasciato tutti di stucco fin dal primo momento. Non era mai successo, prima di lei, che una naked avesse un faro anteriore cos&igrave; particolare e diverso dal classico proiettore tondo, cos&igrave; come la linea di serbatoio, codino e scarichi che sembrava arrivare direttamente dal futuro. Il telaio e il motore 750 erano in comune con la sorella carenata, ma qui tutto il complesso di stile e meccanica assumeva forme e significati diversi, nonch&egrave; una fortissima personalit&agrave;. Con la Brutale S, invece, la moto venne adattata alla produzione di serie e per questo perdeva tutti i particolari pi&ugrave; preziosi in luogo di materiali plastici e finiture pi&ugrave; semplici. Niente che potesse comunque scalfire l'estetica riuscitissima di questo modello, che pur senza tutto quel dorato attorno &egrave; stata capace di strappare i cuori dal petto degli appassionati, che l'hanno gentilmente riposto nel serbatoio della loro nuova moto preferita. Commercialmente la Brutale &egrave; stata un successo, e continua ad esserlo con il 3 cilindri, come naked sportiva della fascia premium del mercato, bench&egrave; quel particolare "vibe" della moto disegnata da Tamburini e del 4 in linea ad alte prestazioni &egrave; qualcosa che appartiene solo ed esclusivamente alla prima serie. Noi abbiamo provato la Brutale S nel 2003 e vi riportiamo le impressioni di guida del nostro tester dell'epoca.  Gira pagina per leggere la prova su InMoto del 2003: &nbsp; Una meravigliosa opera d'arte  Saper aspettare, con pazienza, fidando che a breve il sogno si possa avverare. Ma veramente i sogni si avverano? In ambito motociclistico tutto pu&ograve; accadere, per esempio che debbano passare, per forza di cose, quasi 3 anni per entrare in possesso della moto dei sogni. Questo &egrave; pi&ugrave; o meno il periodo che hanno dovuto attendere i numerosi appassionati, che hanno creato addirittura una lunghissima lista di attesa per vedere finalmente concretizzato il proprio desiderio: la commercializzazione della MV F4 Brutale S. La regina delle Naked che, Dopo lunghi ed estenuanti collaudi, la casa Lombarda finalmente si appresta ad inviare concessionari nella versione definitiva. La messa a punto lungo e meticoloso, che sono simile gioiello merita, non ha intaccato l'unicit&agrave; e la bellezza di quella che pu&ograve; essere considerata una vera e propria opera d'arte. Un autentico capolavoro derivato dalla sportivissima F4, anch'essa uscita dal centro ricerche Cagiva diretto dal maestro Massimo Tamburini. Una vera star, questa Brutale, impossibile da paragonare a qualsiasi altra concorrente e per questo destinata a lasciare una traccia indelebile nel settore, e a cui cospetto anche il pi&ugrave; distratto e insensibile degli osservatori non pu&ograve; non rimanere estasiato ad ammirarne gli splendidi lineamenti ogni pi&ugrave; intimo particolare. I tecnici della MV hanno lavorato intensamente andando a limare quanto pi&ugrave; possibile sulle misure caratteristiche della ciclistica alla ricerca del miglior equilibrio dinamico. Allo stesso modo sono utilizzate il rendimento e l'erogazione del compatto propulsore quadricilindrico di 750cc al fine di conseguire quel bilanciamento globale che contraddistingue qualsiasi altra MV. La versione S di questa prova, disponibile nella classica livrea Rossa oppure nella colorazione tutta nera, non pu&ograve; vantare gli esclusivi particolari in carbonio e in magnesio della Serie Oro, scelta apprezzabile che ha permesso di contenere il prezzo in 14.645 euro. Senza dubbio si tratta di una cifra importante ma che, pur assieme al notevole ritardo di consegna, non &egrave; riuscita a spegnere l'entusiasmo e il desiderio di possedere una Naked unica al mondo.  In sella &egrave; (quasi) tutto perfetto  La Brutale piace per il perfetto inserimento che offre al pilota e per il fatto che una volta a bordo sembra ancora pi&ugrave; compatta di quello che sia in realt&agrave;. Ottima l'ergonomia del posto di guida: la posizione delle pedane non costringe le ginocchia ad un'angolazione pronunciata, il piano Sella non troppo alto garantisce a tutti un rassicurante contatto del piede al suolo. la conformazione del manubrio rialzato ed alle estremit&agrave; aperte, offrono impugnatura naturale e una corretta angolazione delle braccia e permette di mantenere il busto solo moderatamente proteso in avanti. Non &egrave; trattato altrettanto bene il passeggero, costretto a sedersi nel risicato spazio offerto dallo strapuntino e con a disposizione pedane alte da avanzate e ben poco a cui ancorarsi punto altri inconvenienti sono rappresentati dal limitato angolo di sterzata, dalla scarsa visibilit&agrave; offerta dagli specchi retrovisori e dalle vibrazioni, che la lunga diventano fastidiose. Alla guida dell'affascinante Naked MV si soffre Inoltre della sin troppo solida taratura del mono ammortizzatore della trasmissione di calore alle gambe nelle soste a motore avviato. la mancanza di una pur minima protezione aerodinamica, essendo una Naked, non costituisce invece motivo di critica. La Brutale Insomma, &egrave; ben lontana dalla perfezione. ma la splendida italiana sa come farsi perdonare: &egrave; una moto superba, bilanciatissima ed eccezionalmente evoluta sotto il profilo dinamico. si rimane estasiati Dalla rapidit&agrave; di inserimento in curva, nella duttilit&agrave; che evidenzia nei cambi di inclinazione, per la grande naturalezza con cui accetta eventuali correzioni di rotta rispondendo sempre in modo sincero e comandi impartiti Dal Pilota. Non &egrave; leggerissima (200 kg in ordine di marcia circa) ma risulta estremamente maneggevole divertentissima da condurre anche nei tratti o nelle svolte pi&ugrave; lente, anche per l'eccellente equilibrio dell'avantreno, pronto a scendere in piega con rapidit&agrave; ma sempre accompagnato da tanta armonia. Ben impostata di sospensione anche quando si inizia a spingere per davvero, non tiene con precisione la traiettoria, pur essendo lestissima a chiudere in uscita, mai incline ad allargare neppure se scappa la classica manata sul comando dell'acceleratore. manca l'ammortizzatore di sterzo perch&eacute; non serve. L'avantreno si mantiene infatti solido e sicuro in qualsiasi condizione, anche negli inevitabili alleggerimenti che si avvertono nelle accelerazioni pi&ugrave; violente. un inconveniente fisiologico, che a volte pu&ograve; essere causato dal pilota, per esempio quando sui curvoni veloci capita di avvertire qualche leggera oscillazione Istintivamente ci si aggrappa con foga al manubrio. ho fatto, questo, accentuato dal carattere nervoso delle coperture Dunlop D207 RR, piano per&ograve; il grande pregio di fornire un formidabile grip &egrave; una magnifica tenuta anche nelle inclinazioni pi&ugrave; accentuate.  Rewind, MV Agusta F4 Serie Oro: arte in movimento       

Dopo la F4 che ha fatto innamorare tutti &egrave; la roadster dal nome arrogante a incantare le folle. Con lei nasce un'icona delle moto naked e un capitolo importante del motociclismo italiano

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